giovedì 30 maggio 2013

Biografie essenziali (152)

John Holbrook Vance, meglio conosciuto come Jack Vance, ma conosciuto delle volte anche come Ellery Queen, Alan Wade, Peter Held, John van See e Jay Kavanse, non ha mai portato a termine gli studi di ingegneria mineraria, fisica, giornalismo e inglese. Aveva troppa fretta di metterli in pratica. E di metterli in pratica tutti assieme. *

lunedì 27 maggio 2013

L'(n+1)esimo libro della fantascienza

Un pomeriggio nuvoloso ce ne andammo in Piazza San Carlo, il salotto di Torino, dove esisteva a quel tempo un non chiaro ma provvidenziale legame tra la sede dell’Usis [United States Information Service N.d.R.] ora soppressa, e una bancarella di libri usati in un vicolo adiacente. Avevamo notato che questa bancarella era la meglio fornita della città in fatto di paperbacks americani, e la visitavamo periodicamente. Andammo scettici, le mani in tasca, la mente alla Legione Straniera. Sempre scettici, trovammo un blocco appena arrivato di libri di science fiction, che acquistammo mettendolo debitamente in conto al nostro datore di lavoro. Una trentina di volumetti abbastanza malconci, dalle copertine non specialmente allettanti, scritti da sconosciuti Clarke, Matheson, Bradbury, Sheckley, Asimov, Simak, eccetera. Ce li dividemmo e tornammo ciascuno a casa sua.
Non sapremo mai chi abbia venduto quel blocco alla bancarella, se un funzionario Usis spedito in un’altra sede, un agente delle Cia partito alla fine della sua missione, un tecnico temporaneamente distaccato alla Fiat, un importatore texano di cioccolatini torinesi, o magari un supervisore galattico che vide in noi due potenziali adepti e fabbricò la coincidenza, il fatale incontro ravvicinato. Ma è certo che a quell’ignoto personaggio dobbiamo la nostra conversione istantanea.

(Fruttero & Lucentini, I Ferri del mestiere, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, 2003 - appena ristampato)
Una delle possibilità della letteratura fantascientifica è sempre stata la serialità. E quindi, brevemente, dopo il successo interplanetario dell'anno scorso de L'ennesimo libro della fantascienza, noi adesso facciamo:

L'(n+1)esimo libro della fantascienza

e proveremo a pubblicarlo (gratuitamente, come al solito) il 19 settembre del 2013, in corrispondenza del primo anniversario della fantascienza barabbista e del secondo compleanno del signor Carlo Fruttero senza il signor Carlo Fruttero.

Dovreste ormai essere espertissimi: avete tempo fino alla data stellare -310071.2347792999 (cioè le 23:59 del 5 settembre 2013) per mandarci un racconto, un saggio, un ragionamento, una foto, una poesia, un disegno o quello che vi pare all'indirizzo marcomncrd [chiocciola] gmail [punto] com. Potete sfruttare la fantascienza in tutte le sue forme e in tutti i suoi sottogeneri, potete anche inventarne dei nuovi, se ci riuscite. Non avete limiti.
C'è solo una regola da rispettare: NO FANTASY.

Ripensate al futuro.

sabato 25 maggio 2013

Affamati di letteratura: a brief history of Barabba

“Abbiamo scelto questo nome per vari motivi”, spiega Luca, 33 anni, un passato da aspirante veterinario, una Laurea in Lettere moderne all’Università di Bologna e un curriculum fatto, come ogni vero letterato che si rispetti, dei mestieri più diversi, tra i quali spiccano magazziniere, operatore cinematografico, libraio, tutor ambientale e organizzatore di eventi. “Avevo da poco letto l’omonimo romanzo di Par Lagerkvist, libro che consiglio caldamente, inoltre ci avevano detto che negli Anni ‘70 esisteva già, a Carpi, una rivista con tale nome (fatto poi rivelatosi infondato) e, per finire, perché ci piaceva molto la figura di un individuo che, secondo molte fonti dell’epoca, era un rivoluzionario, una persona che lottava per l’indipendenza senza attendere interventi divini”
Sul Tempo di Carpi. (Lo trovate anche sulla carta, se siete nei paraggi.)

lunedì 20 maggio 2013

Ricicciamenti: Siamo fatti così

C'è una puntata del cartone animato Siamo fatti così dove viene spiegato che i sogni sono una cosa che il nostro cervello prende tutti i nostri ricordi e li mischia, e poi li ripresenta alla rinfusa mentre uno dorme. Per esempio, prima di fare l'amore per la prima volta, può capitare, sì, di sognare di fare l'amore, ma sono dei ricordi, come dire, di pellicole e di carta stampata; quindi si può sognare di fare l'amore senza averlo mai fatto, ma dentro al sogno non si fa davvero l'amore, si è come spettatori del fare l'amore.
Dopo, quando si è fatto l'amore per davvero, la prima volta, anzi forse dopo due o tre volte, diciamo, quando poi capita di sognare di fare l'amore, ecco, non si è più semplici spettatori del fare l'amore nel sogno, ma si diventa parte attiva del gesto di fare l'amore, mentre si dorme.
Ecco, col terremoto funziona uguale.

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Ricicciamenti non è una rubrica. Ricicciamenti è un prodotto della crisi delle idee. Nei ricicciamenti si prende un vecchio post e lo si riciccia, cioè lo si riscrive o lo si mette a posto e lo si ripubblica. Magari in un'occasione speciale come questa, a un anno quasi esatto dalle quattro del mattino di un anno fa.

mercoledì 8 maggio 2013

Trucchi della borghesia (85)

[Siamo circa nel 1930 e la famiglia Joad è partita dall'Oklahoma. Là erano mezzadri, ma sono stati sfrattati dall'arrivo della tecnologia nell'agricoltura, cioè dai trattori e dalle banche; allora i Joad si sono messi in viaggio verso ovest, come tutta una gran massa di gente delle loro parti. Ora sono accampati con altre famiglie in viaggio verso la terra dell'abbondanza, sono circa a metà strada, è notte e i maschi stanno facendo filosso sotto il portichetto del padrone del campeggio.]
«Per fortuna che questa vita non ha da durare ancora molto.» Disse Pa. «Tra un po' arriviamo nell'ovest e lavoreremo, e ci faremo un pezzetto di terra da coltivare e con dell'acqua.»
Vicino al bordo del portico stava un uomo coperto di stracci. Aveva una giacca nera tutta strappata. La tela della tuta da lavoro era bucata sulle ginocchia. La sua faccia era nera per la polvere e rigata dov'erano passate le gocce di sudore. Girò la testa verso Pa. «Voialtri dovete avere un bel po' di soldi.»
«No, non abbiamo soldi,» disse Pa. «Ma siamo in tanti e siamo buoni lavoratori. Hanno degli stipendi buoni là, e noi li metteremo tutti insieme e ce la faremo.»
Lo straccione guardò Pa mentre parlava, poi si mise a ridere, e la sua risata divenne via via più sguaiata. Tutte le facce si girarono verso di lui. La risata incontrollata dello straccione lo fece tossire, con gli occhi rossi e bagnati, quando infine riuscì a controllare gli spasmi. «State andando là... Oddio!» Ricominciò a ridere. «State andando là e avrete... degli stipendi buoni... Oddio.» Si fermò e poi riprese, sornione, «Andate a raccogliere le arance, forse? A raccogliere le pesche?»
Il tono di voce di Pa si fece più solenne. «Andiamo a fare quel che c'è da fare. Hanno un bel po' di lavori da offrire là.» E lo straccione ricominciò a ridacchiare sotto i baffi.
Tom si stava irritando. «Cos'è che ci trovi poi da ridere?»
Lo straccione si mise zitto e guardò indisponente le assi del portico. «Voialtri andate tutti in California, scommetto.»
«Te l'ho detto,» disse Pa. «Non devi mica tirare a indovinare.»
Lo straccione disse lentamente, «Io, beh, sto tornando indietro. Vengo da là.»
Le facce si girarono di scatto a fissarlo. Lui stava rigido [...] «Sto tornando indietro a morir di fame. Preferisco finire di morire di fame a casa mia.»
Pa disse, «Cosa stai dicendo? Ho un volantino che dice che gli stipendi sono buoni, e prima avevo anche visto sul giornale che là gli serve della gente per raccogliere la frutta.»
Lo straccione si girò verso Pa. «Non ce l'avete un posto dove tornare?»
«No,» disse Pa. «Ci hanno mandati via. Hanno messo un trattore davanti alla casa.»
«Non tornereste indietro comunque?»
«Certo che no.»
«Allora non voglio mica darvi dei pensieri,» disse lo straccione.
«Per forza che non mi dai dei pensieri. Ho qui un volantino che dice che là gli servono delle persone. Non ha mica senso che stampino dei volantini se non gli servono delle persone. Costa dei soldi stampare i volantini. Non li avrebbero mica distribuiti se non gli servissero davvero delle persone.»
«Non voglio darvi dei pensieri.»
Pa disse irritato, «Ma ci stai prendendo per il culo. Adesso non puoi mica stare zitto. Il mio volantino dice che là gli servono delle persone. Te sei lì che ridi e dici che non è vero. Chi è dei due che dice delle baggianate?»
Lo straccione guardò Pa negli occhi. Sembrava dispiaciuto.
«Il volantino ha ragione,» disse. «Là gli servono delle persone.»
«E allora perché sei qui a istigarci con le tue risate?»
«Perché non sapete che tipo di persone gli servono, a quelli là.»
«E cioè?»
Lo straccione si decise. «Dimmi un po',» disse, «quante persone stanno cercando sul tuo volantino?»
«Ottocento, e solo in un posto, un posto piccolo.»
«È un volantino arancione?»
«Be'... sì.»
«C'è scritto il nome del tipo, così e cosà, contratto di lavoro?»
Pa tirò fuori dalla tasca il volantino ripiegato.
«È vero. E te come lo sai?»
«Guarda,» disse l'altro, «Non ha mica tanto senso. Quel tipo là vuole ottocento persone. Così stampa cinquemila di quelle cose lì e magari lo leggono in ventimila. E magari due o tremila persone si mettono in viaggio per quello che c'è scritto su. Perché è gente che sta andando via di testa dalla preoccupazione.»
«Ma non ha mica senso!» si lamentò Pa.
«Non ce l'ha finché non vedi il tipo che li ha fatti distribuire. Lo vedrai, lo vedrete, o vedrete qualcuno che lavora per lui. Sarai là a campeggiare in riva a un fosso, te e altre cinquanta famiglie. E lui verrà a vedere nelle vostre tende e guarderà se avete ancora qualcosa da mangiare. E se non hai niente, allora dice 'Vuoi un lavoro?' e te gli rispondi 'Volentieri, signore. La ringrazio che mi dà la possibilità di lavorare.' E lui dice 'Puoi servirmi.' E te rispondi 'Quando comincio?' E lui ti dice dove devi andare, e quando, e poi va via. Magari gli servono duecento persone, così lui parla con cinquecento, e quelli lo dicono a degli altri, e quando ti presenti sul posto, ci saranno un migliaio di persone. Allora il tipo dice 'La paga è di venti centesimi all'ora'. E magari sentendo così la metà delle persone va via. Ma ne rimangon poi sempre cinquecento, che sono così affamate che lavorerebbero per dei biscotti. Be', così quel tipo lì ha pronti i suoi contratti per raccogliere le pesche o il cotone. Capito? Più persone arrivano, e più han fame, meno lui le paga. E sceglie quelli con dei figli, se può, perché... ma basta, non voglio darvi dei pensieri.»

(John Steinbeck, The Grapes Of Wrath, cioè Furore, cap. 16; 1939; la traduzione - un po' libera - è mia, e perciò me ne scuso.)
Ho ripensato a questo pezzetto di Steinbeck dopo che stamattina ho sentito alla radio che la Germania ultimamente appiccica in giro per l'internet delle offerte di lavoro per giovani laureati italiani. O meglio: non fa richieste precise, ma dice proprio Venite qua da noi che c'è da lavorare. E dopo ho letto che l'immigrazione italiana in Germania è cresciuta del quaranta percento o giù di lì. E mi verrebbe da dire che i giovani laureati italiani sono i nuovi contadini dell'Oklahoma.

martedì 7 maggio 2013

In Russia c'è da morir dal ridere (10)

Nella stanzetta in cui Aleksej Maksimovič Peškov, meglio conosciuto come Maksim Gor'kij, scriveva le sue opere, ma soprattutto dove decideva se i manoscritti degli altri andassero bene o meno, c'è un tavolo con una teca di vetro. Quando la mia signora si è avvicinata per guardare meglio, ha subito detto ridacchiando una cosa che ho capito come «Ma toh, ma guarda, Gor'kij era un cocainomane».
Preso così alla sprovvista, sono andato a vedere anch'io, e sotto la teca c'era un barattolino pieno di roba bianca, con un pennello a lato. E allora ho capito che prima non avevo capito e, ricontrollando per bene sulla guida plastificata che avevo preso all'ingresso la data precisa del soggiorno a Capri dello scrittore, mi sono battuto una manata sulla fronte esclamando: «Ma toh, ma guarda, Gor'kij era un coccoinomane

domenica 5 maggio 2013

(Trascrizione più o meno fedele di) Tutta palestra

(Quello che segue è una specie di discorso di dieci-quindici minuti che abbiam fatto ieri, alla Fornace Carena di Cambiano, in provincia di Torino, durante una Festa della Solidarietà che raccoglieva due soldi per il mio natìo borgo selvaggio, Novi di Modena. Le cose in corsivo le ha lette la mia signora, quelle dritte invece le ho lette io.)

Buonasera.

Io mi chiamo Marco Manicardi, di mestiere faccio l’ingegnere informatico, sono nato a Carpi in provincia di Modena nel 1979, nello stesso ospedale dove una nostra conoscente, la mattina del 29 maggio del 2012, ha iniziato a partorire in sala operatoria e, nel primissimo pomeriggio, ha poi partorito un bambino bellissimo nel parco fuori dal pronto soccorso. Comunque, io mi chiamo Marco Manicardi, sono nato a Carpi e ho vissuto a Novi di Modena i primi 26 anni della mia vita, poi sono andato a stare in centro storico a Carpi con quella ragazza lì che si chiama Caterina Imbeni, che è nata nel 1980, lavora all’anagrafe e adesso viviamo insieme.

La cosa che vi leggiamo stasera si intitola Tutta palestra e inizia martedì 29 maggio 2012, quando ero nell’epicentro epicentrissimo del terremoto, vicino a Mirandola, a lavorare. Sono scappato fuori dall’ufficio e mi sono trovato davanti agli occhi i feriti, il fumo, la polvere, i muri che si staccavano, le sirene, le lacrime e la paura, le linee telefoniche in tilt, l’ansia di sapere come stava la mia famiglia e l’ansia per la loro ansia di sapermi nel centro esatto della catastrofe senza riuscire a contattarmi. Ma in una finestrella di qualche decina di secondi, con le linee telefoniche ancora giù, sono riuscito a scrivere su twitter una frase del tipo “mamma sto bene”, e mia mamma l’ha letta su facebook e mi ha detto che ha fatto una foto allo schermo e adesso, la foto, dice che la conserverà per sempre.

Ci siamo riusciti, poi, sempre martedì 29 maggio 2012, a parlare al telefono, dopo un’ora o un’ora e mezza, e non vi so neanche spiegare la sensazione di sollievo.
Qualche ora dopo ho scoperto, guardano i notiziari, che a cento metri da dove mi trovavo a lavorare sono morte delle persone, e qui la sensazione era di disperazione, e forse lo è ancora, ma anche questa cosa non so mica bene come spiegarvela.
Allora sono andato a casa dei miei, a Novi di Modena, il mio natìo borgo selvaggio, ed ero ancora abbastanza su di giri. La sera, dopo altre due scosse che avevano avuto epicentro proprio lì, ho visto i miei genitori impauriti e i nonni che erano rimasti senza casa. Quando ho fatto un giro in centro, mi sono trovato davanti alla prova tangibile della fine delle cose costruite dall’uomo, e nello specifico erano le cose costruite dall’uomo sotto le quali ho vissuto, giocato, amato, parlato, gridato e fatto anche a pugni (una volta sola), per almeno venticinque anni della mia esistenza.

Lì per lì avevamo tutti una gran paura. Ma la paura è una sensazione con cui, sembra strano, si convive. E’ la disperazione, quella con cui si devono fare veramente i conti. E la disperazione arriva dopo, dopo qualche ora o qualche giorno, e arriva quando la paura non fa quasi più paura.

Per esempio, nei primi giorni di giugno, abbiamo smontato e caricato e spostato letti e armadi dalla casa inagibile dei nonni, poi abbiamo chiuso a chiave per sempre la porta. Ma prima di farlo, prima di girare per l’ultima volta la chiave nella toppa, col cuore che piangeva, io e mio padre siamo andati nel solaio tutto crepato e abbiamo tirato fuori la macchina da cucire della nonna. Quando gliel’abbiamo portata, forse per la prima volta da tantissimo tempo, ho visto gli occhi di mia nonna inumidirsi. Ha sorriso e ha detto «oh, là, questa è proprio la mia». È una vecchia CASER fissata su un tavolino di legno tarlato, con la pedaliera in metallo, che forse è di ghisa, secondo me. L’ha comprata nel ’53 che era già usata.
«Non l’ho proprio comprata» dice mia nonna dopo qualche minuto di silenzio e contemplazione, «l’avevo vista da una signora, mi piaceva, l’ho scambiata con un una cassetta di mele.»

Dopo, mia sorella ha scritto una cosa su facebook. Una cosa che faceva così:

Poi ti ritrovi a svuotare e smontare completamente la camera dei nonni, perché lì, nella loro casina che per loro era come un castello, per niente moderna ma tenuta con tanto amore, piena di ricordi e di abitudini… ahimè, non ci potranno più vivere. Guardo negli occhi la nonna che, per non pensarci, sta a casa mia a cucinare qualsiasi cosa gli sta passando per la testa e poi guardo negli occhi il nonno, che invece è là a guardare il figlio e i nipoti che smontano e caricano sul furgone un pezzo della sua vita. Entro in casa e prendo una M&M’s (che adora), gliela porto, la mangia ma è arrabbiato, il cuore è spezzato. Li vedo, sono abbattuti, delusi, arrabbiati con un nemico invisibile che in pochi secondi (un po’ per volta) gli ha portato via tutto ciò che con fatica e sudore si erano costruiti per poter vivere una vecchiaia serena. Li vedo così, con reazioni diverse, ma entrambi seri e in silenzio. Cercano di farsene una ragione, che in realtà non si faranno mai. Cercano di non far vedere troppo la sofferenza che stanno provando, ma che negli occhi si vede comunque, solo per non far stare peggio noi che gli siamo vicini.

Ci penso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.

Io, come mio fratello, in quella casa ci sono cresciuta. Se non tutti i giorni, al massimo ogni due giorni, andavo là per fare due risate e soprattutto per fargli fare due risate. Dopo sì che erano felici, dopo sì che anche io ero felice sapendo di averli resi felici.
Da oggi non potrò più dire “vado dai nonni”; da oggi non potrò più fare arrabbiare la nonna presentandomi all’ultimo secondo a casa sua per pranzo o per cena, senza averla avvisata almeno qualche ora prima; da oggi non potrò più andare là e dire “dai nonno, vieni con me! – e lui perplesso: ma indua? – Nonno non preoccuparti, andiamo!” e anche se un po’ nervoso per non averlo avvisato prima, veniva sempre.

Ci ripenso e l’unica cosa che mi viene da fare è piangere, ma non mi faccio vedere.


Ecco, io nei giorni successivi alle scosse grosse, giravo sempre col cane al guinzaglio e una borsina con dentro il computer, il caricabatterie del cellulare, la carta di credito e due o tre libri, anche se era un periodo che leggere era fatica. Son fatto così.

Mio suocero, Gianfranco, che non è mai uscito dalla sua casa piena di crepe, nella zona rossa di Carpi, che non c'è stato proprio verso di farlo uscire, anche se ci abbiamo provato, ma niente, quando gli abbiamo chiesto cosa gli serviva, ci ha detto: sigarette e Lambrusco. E noi glieli abbiamo portati. «Siete la mia protezione civile», ci ha detto. È fatto così.

Mia nonna, Ada, sfollata in un camper davanti a casa dei miei, a Novi di Modena, quando siamo andati a recuperare le sue cose col carriolino e lei ha iniziato a capire che forse non sarebbe mai più rientrata nel posto in cui ha abitato per almeno cinquant’anni, le prime cose che ci ha fatto portar fuori, prima ancora dei vestiti e dei giabanini di valore, sono state: il casco per la permanente (perché le signore son signore in ogni situazione), l’asse per la sfoglia (perché «tua madre ha un tavolo che non va mica bene»), due o tre mattarelli e farina e uova (perché anche se casca il mondo bisogna fare delle torte). È fatta così.

Ed è proprio vero, mi viene da pensare, quello che diceva un mio amico cantautore un paio di giorni dopo la prima scossa del 20 maggio, e cioè che «l’unica cosa positiva di un disastro è che ti fa riconsiderare le priorità, e non sai se sia il karma, lo ying e lo yang o chissà che cosa, però è indubbio che ti rimette a posto il cervello per quel che vale la pena di avere e vivere. Poi, piano piano, ti scordi tutto e torni a essere un cretino. Chissà quale delle due è la nostra vera indole.» Siam fatti così.

La parte interessante dei terremoti, ho pensato, è che poi ognuno impara delle cose che prima uno non se le immaginava neanche. E alcune di queste cose le abbiamo imparate tutti, noi terremotati, come per esempio che non si può più, d’ora in poi, vivere come se non dovesse più esserci il terremoto.

Poi ci sono delle cose che ognuno impara a modo suo. E queste sono le cose che ho imparato io:

Ho imparato a individuare al volo i muri portanti delle stanze in cui entro.
Ho imparato a valutare sommariamente l’entità di una crepa.
Ho imparato a trattenere il magone per una crepa su di un edificio caro.
Ho imparato che ci sarà sempre almeno un altro edificio caro con una crepa in più.

Ho imparato ad ascoltare le storie delle persone e ho imparato a farlo in silenzio.
Ho imparato a raccontare la mia storia, senza la pretesa che sia speciale.
Ho imparato a non rispondere a chi mi parla di spostamento dell’asse terrestre, di fracking, di complotti sulla magnitudo, di «ho un amico geologo che dice che», di «qualcuno sapeva e non ha detto niente».
E ho imparato, se proprio mi arrabbio, a rispondere secco «ciao, guarda, scusa, ma devo andare che ho un impegno.»


Ho imparato a rimanere calmo durante le piccole, continue scosse di assestamento.
Ho imparato che mettersi a correre non è la reazione migliore, quasi mai.
E adesso un po’ sta passando, ma ho imparato a fare delle docce velocissime.
Per non parlare della cacca.

***

Verso la fine di luglio dell’anno scorso, che era il sessantesimo anniversario di matrimonio dei miei nonni (pensa te, sessant'anni), siamo andati nella via dove c'era prima la loro casa, che poi c'è ancora, solo che non ci si può più entrare, e in fondo a quella via aveva appena riaperto, dopo due mesi, la pizzeria Quadrifoglio, che praticamente era l'unico edificio agibile su quella strada; e oltretutto, non lo dico perché ci sono affezionato o per fare della pubblicità, ma è davvero una delle migliori pizzerie della regione. Quella sera la pizzeria Quadrifoglio di Novi era piena di gente, c'era da far la fila, ma c'era della contentezza, anche a far la fila.

Dopo, parlando un po' coi miei genitori, a tavola, ho scoperto che il meccanico delle biciclette, che ha la bottega squarciata nella zona rossa, aveva riallestito il negozio nel suo garage e anche adesso lavora lì tutti i giorni. E il mio barbiere, che dopo decine di anni di lavoro a Rolo in provincia di Reggio Emilia era appena riuscito ad aprire la bottega in centro a Novi, il suo paese, adesso taglia i capelli regolarmente al primo piano di casa sua, appena fuori dalla zona rossa, se si può pensare di esser fuori da una zona rossa, a Novi di Modena.

E allora, forse senza alcun nesso logico, mi è venuto da pensare che non è tanto questione di emilianità (che non esiste, l'emilianità) o di tenere botta (che è uno slogan, “teniamo botta”, coniato un anno fa e che vuol più o meno dire “portiamo pazienza”), ma invece, forse, è come dice lo scrittore Paolo Nori in un discorso bellissimo intitolato Noi e i governi, che ha dentro un pezzo che fa così:

[...] c’è un mio amico, per esempio che è uno storico della città di Pietroburgo e gli avevano impedito di fare il suo lavoro perché era un antisovietico, seguito dalla polizia segreta, e è stato costretto a lavorare in fabbrica e ha continuato a studiare per conto suo, di notte, e andava in biblioteca al sabato e alla domenica, e lui per tutta la vita, se la libertà fosse un muscolo, che si rafforza con l’esercizio, che un po’ forse è così, no?, come tutte le altre cose, be’, se fosse un muscolo, o un fascio di muscoli, come i muscoli addominali, che lì non si scappa, si sente al tatto, o ce li hai o non ce li hai, non te li danno gli altri, te li fai su te, con la pratica, be’, è come se lui, quel mio amico lì, che si chiama Al’bin, la sua libertà l’avesse esercitata tutti i giorni per quarant’anni e l’Unione Sovietica è stata la palestra ideale, per lui, e andava in giro per l’Unione Sovietica con il suo ventre piatto da pugilatore e guardarlo andare era un piacere.

Ecco, adesso non lo so come andrà a finire, che dalle nostre parti c'è ancora un bel po' di disperazione, altro che l'emiliano di qua e l'emiliano di là.
Ma, se non altro, le cose come i terremoti fan venire i muscoli, verrebbe da dire.
Perché là da noi, a Novi di Modena, e in generale dove c'era la bassa, adesso, anche oggi, è tutta palestra.

mercoledì 1 maggio 2013

Lavoratori di tutto il mondo unitevi e amatevi gli uni con gli altri

I socialisti italiani, vivamente consapevoli del fascino spontaneo della nuova Festa del lavoro agli occhi di una popolazione in gran parte cattolica e analfabeta, usarono l'espressione «Pasqua dei lavoratori» almeno a partire dal 1892, e simili analogie diventarono correnti in campo internazionale dalla seconda metà degli anni Novanta. È facile capirne il motivo. La somiglianza del nuovo movimento socialista con un movimento religioso e perfino, nei primi anni eroici della Festa del lavoro, con un movimento di rinascita religiosa a tinte messianiche, era evidente. E per certi versi, uguale era la somiglianza dei leader, attivisti e propagandisti di quel movimento con una gerarchia ecclesiastica, o almeno con un ordine missionario. Possediamo uno straordinario volantino del 1898 proveniente da Charleroi, in Belgio, riproducente quella che può essere solo definita una predica da Primo maggio; nessun'altra etichetta sarebbe adeguata. Fu stilato dai, o a nome dei, dieci deputati e senatori del Parti Ouvrier Belge - atei dal primo all'ultimo, senza dubbio - sotto il duplice motto «Lavoratori di tutto il mondo unitevi (Karl Marx)» e «amatevi gli uni con gli altri (Gesù)». Qualche citazione dà un'idea del contenuto:
È questo [così inizia] il tempo primaverile e festivo in cui la perpetua evoluzione della natura rifulge in tutta la sua gloria. Come la natura, riempitevi di speranza e preparatevi a una Nuova Vita.
Dopo qualche riga di raccomandazioni morali («Abbiate rispetto di voi stessi: guardatevi dalle bevande che ubriacano e dalle passioni degradanti», e così via) e buoni propositi socialisti, la predica si concludeva con un brano di sapore millenaristico:
Presto le frontiere si dissolveranno! Presto finirà il tempo di guerre ed eserciti! Ogni volta che praticherete le virtù socialiste della Solidarietà e dell'Amore, farete sì che questo futuro sia più vicino. E allora, nella pace e nella gioia, verrà un mondo in cui il socialismo trionferà, una volta compreso il dovere sociale di tutti di favorire il pieno sviluppo personale di ciascuno.
[...] Diversamente da altre ricorrenze, comprese molte manifestazioni più o meno ritualizzate del movimento operaio tenutesi in precedenza, il Primo maggio non commemorava niente, almeno al di fuori dell'influsso anarchico che mirava a collegarlo all'episodio degli anarchici di Chicago del 1886. Non verteva su niente fuorché sul futuro, che, al contrario di un passato che niente aveva avuto in serbo per il proletariato se non tristi esperienze («Du passé faisons table rase» cantava non per caso l'Internazionale), prometteva l'emancipazione. Inoltre «il movimento» non offriva, come invece la religione, ricompense dopo la morte ma una Nuova Gerusalemme su questa Terra.

(Eric J. Hobsbawm, Il Primo maggio: nascita di una ricorrenza, 1990; in Gente non comune, BUR Storia, 2007.)

Buon Primo maggio.