domenica 23 settembre 2012

Nel nome del padre (11bis) - Mio padre faceva il fabbro II

[Continua da qui]

Mi vergognavo che mio padre fosse un fabbro.
Non che i miei amici avessero genitori scrittori, o politici, o sportivi o che altro potesse far ingelosire un preadolescente. Però quando si doveva tirar fuori il mestiere dei propri genitori dicevo sempre prima quello di mia madre, che era infermiera in sala operatoria, e quindi salvava le vite, aveva una divisa, poi, se proprio si insisteva, anche quello di mio padre.
Durante il liceo ho conosciuto una tipa che frequentava un altro giro rispetto al mio, era in classe con amici che andavano alle magistrali, e ho scoperto che era la figlia del capo di mio padre. Sapevo che si chiamava Narcisi di cognome, come la ditta dove lavorava mio padre, così ho chiesto a papà se il suo capo aveva una figlia. Ce l’aveva ed aveva la mia età. Sapere che questa era la figlia del capo di mio padre mi ha sempre tenuto alla larga da lei. Che poi, anche di starle vicino, non me ne fregava granché. Aveva pure l’apparecchio sia sopra che sotto.  Questa parte della tipa figlia del capo di mio padre magari la togliamo in editing.
Non ho imparato nulla del suo lavoro. Non ho imparato granché in generale da lui, mi verrebbe da dire. O per lo meno non saprei decifrarlo ora. I primi buchi col trapano li ho fatti a 23 anni. Non ho mai saldato nulla, e probabilmente mai lo farò. Non ho neppure una morsa. Se potessi tornare indietro ora. “Se potessi tornare indietro” non andrebbe detto mai.

Ricordo che per un certo periodo fumava di nascosto. Non saprei collocare questo frangente storicamente. Sicuramente prima che si scoprisse del tumore. Magari in seguito ad alcune analisi sballate, che so. Faceva esami regolari perché era un donatore di sangue all’Avis. Ecco, questa cosa mio padre me l’ha lasciata, perché anch’io sono diventato donatore di sangue per un certo periodo. Mia madre comunque lo beccava sempre, o sentendo l’odore di fumo sui vestiti, o trovando pacchetti nascosti. E le scenate in cucina, quelle fatte a bassa voce per non farsi sentire dai figli. In quel periodo facevo questo gioco: di nascondermi in qualche punto della casa e trascrivere cosa dicevano i miei famigliari, poi leggere a tutti, dopo cena, i loro dialoghi. Risate a palate. Quella cosa del fatto che mio padre fumasse di nascosto non la lessi dopo cena. Bruciai il foglio il pomeriggio seguente con la lente d’ingrandimento nel balcone che dà sul retro.
Il tumore fu causato da un melanoma, che è una specie di neo, che aveva sul collo.
Prese il cervello, e poi i polmoni. Ogni due anni faccio una visita dermatologica per controllare i miei nei. Ne avrò più di 200 su tutto il corpo. Quando vado dal dermatologo devo sempre specificare che ho una familiarità con melanoma maligno, e a quel punto il dottore cambia faccia e mi visita con uno zelo diverso. Non ci penso mai che uno dei nei potrebbe essere foriero di sventure. Ci penso solo una volta ogni due anni, mentre sono svestito, sul lettino del dermatologo, e quello indugia su un neo un po’ più del solito. Poi ci fa una foto, scrive due robe al computer, e mi dice che posso tornare tra due anni. In questo biennio però ci ho pensato una volta in più, questa in cui sto scrivendo. Ne avrei anche fatto a meno.

Quando sono venuto a vivere in montagna mia madre mi ha regalato una cassetta degli attrezzi nuova. Dentro c’erano alcuni dei pezzi storici che ricordo in mano sua: il cacciavite a taglio piccolo dal manico giallo; la cagna rossa con tutta la vernice scrostata; la scatolina di latta blu per le candele con due candele unte dentro. E il trapano a filo. Quanto l’ho maledetto. Quando usai per la prima volta quel trapano feci 4 buchi nel muro per appendere una cornice. La punta non entrava per più di 1 centimetro. Pensavo di aver colpito per quattro volte un tondino di ferro, o un tubo, o che so. Poi mi accorsi che il trapano non era sulla selezione giusta: c’era uno switch con il simbolo della vite – per avvitare -, e il simbolo del martello – per forare. Ritentai switchando sul martello ed entrai nel muro per 2 cm scarsi. Altri buchi a caso. Poi mi spiegarono che dovevo usare una punta da muro. Grazie. Quando abbiamo traslocato nella casa da cui scrivo, si ripresentò il medesimo problema. Stavolta serviva una punta da pietra. Grazie.
Mio padre mi avrebbe sputato su un piede se m’avesse visto.
Poi sono migliorato. Ad oggi penso che sarebbe fiero di come ho imparato a fare il cemento, a stuccare le crepe nel muro, ad accendere il fuoco nelle stufe, ad usare il decespugliatore, ad accatastare la legna. Di come vado liscio quando c’è da passare del ferro al flessibile (“sgromellare”) o piallare delle assi. Di come ho installato l’irrigazione a goccia nell’orto o accomodato la serratura del portone d’ingresso. Chissà se sarebbe fiero di vedermi suonare a un concerto dei Penguins o vedermi al mixer durante uno spettacolo. Una volta ad un concerto del gruppo che venne dopo i Mind the Gap, alla Festa de l’Unità di Correggio, vennero a vederci due suoi fratelli. Walter e Romano. Non ricordo cosa dissero quando mi salutarono per andare a casa.
I miei amici Romano lo chiamavano McGayver: aveva un laboratorio in casa, riparava elettrodomestici; il primo organetto me lo regalò lui, preso dalla discarica e rimesso in sesto. Forse non me lo regalò, ma glielo compari. Comunque fu un affare.
Erano i fratelli che all’ospedale venivano a trovarlo quasi tutti i giorni. Entravano nella stanza – che grazie agli agganci di mia madre infermiera fu tipo una singola per tutta la degenza – mi scambiavano un sorriso, si mettevano a sedere, e io ne approfittavo per staccare una mezz’ora. Oppure ci trovavano in giardino. Lo portavo là su una sedia a rotelle. Non riusciva più a camminare. Non riusciva più a fare nulla. Gli davo da mangiare, gli mettevo il pappagallo, lo lavavo. Per il resto preferiva chiamare un’infermiera, o lasciar fare a mia madre. Avevo superato l’esame di teoria per la patente. Un errore. Non mi ha mai visto guidare.
Un paio di volte, verso la fine, penso di aver persino dormito in ospedale, cosa che mi risulta essere pressoché impossibile agli umani, almeno oggi. Cosa che, comunque, non auguro a nessuno.
Negli ultimi giorni gli diedero della morfina.
Quando capimmo che stava per morire c’eravamo io e mia madre. Telefonammo ai miei fratelli. Ecco, sì, avevo un cellulare. Ricordo anche che era un Siemens e aveva lo schermo arancione. Ma non ricordo se eravamo tutti dentro quando morì. Ricordo quel respiro, e l’apnea sempre più lunga tra l’inspirazione e l’espirazione. Ricordo l’ultimo respiro. L’ultimo respiro fu un’inspirazione. Poi gli occhi spalancati. Mia madre che gli dice singhiozzando: “No Italo, non guardarmi così”, o qualcosa del genere.  Qualcuno pose il palmo della mano sugli occhi e fece scendere le palpebre.

Cinque minuti fa non ero cosciente di ricordare queste cose.
Ma scrivendo ricordo, e ora che ricordo, mi rendo conto che difficilmente ricordo altre cose di mio padre perché le immagini più indelebili restano quelle degli ultimi mesi, degli ultimi giorni, e gli ultimi respiri. Per quanto sia difficile se ci si trova in mezzo, credo sia meglio che la morte di qualcuno a cui abbiamo voluto bene sia vista solo da sconosciuti.
Una volta che le si è scritte, ricordate, cancellarle sarebbe inutile, e impossibile.
A dieci anni di distanza posso dire due cose: che ha avuto un decorso abbastanza veloce, e che è stato fortunato a morire prima dei suoi figli.

In questi giorni che ho un po’ di tempo da perdere mi è tornato in mente mio padre.
Era da tantissimo tempo che non avevo del tempo tecnicamente vuoto.
Negli ultimi 5 anni, o forse sono 6 non ricordo (faccia che ride), ho quasi sempre fatto spettacoli per lavoro. Panem et circeneses era la tecnica dei romani per sedare le folle, e far passare il messaggio che nonostante tutto, tutto andava comunque per il meglio.
Ma questi anni sono anni di crisi, giusto, e la crisi ad un certo punto deve cominciare a scalfire anche alcune parti dei circenses. A me, per lo meno, è capitato così, e per l’autunno si preannuncia periodo di magra (o di rana, come dice il mio ex capo). Ho sempre lavorato fin da quando facevo l’università. Negli ultimi anni sono stato un precario con stipendio fisso (anomalia, ne convengo). Ora sono precario tout court. E forse per un po’ vivrò la strana situazione di non avere un lavoro da fare, o avere dei periodi senza un lavoro da fare. Scommetto un pieno di benza che se avessi imparato a saldare ora non sarei qua a scrivere. Ma non si torna indietro, già.
In generale, c'è più tempo di ozio.
Lo sapete il contrario di ozio in latino? Negozio, negotium, ovvero nec otium, niente ozio. L’ozio era la condizione basilare, soggiacente. Se c’era un lavoro da fare, non era altro che un’intermittente interruzione dell’ozio. Cosa voglio dire? Non saprei, al momento non me lo ricordo. Però c’è più ozio per pensare. E ogni tanto non è così male. Aiuta a mettere le cose in ordine. Fine.

“Ciò che smarrisci ha due verità:
da un lato è nulla – e nulla esiste più;
dall’altro c’è la percezione che
rimanga sempre una tua proprietà”

1 commento:

  1. Dico solo che leggere questi post é meraviglioso
    Un saluto

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