martedì 31 maggio 2011

Italioti: da zero a centocinquanta in due ore (Atto II°: La Vendetta)

Come l'assassino che torna sul luogo del delitto, come il lupo che perde il pelo ma non il vizio, come la tremarella che ti viene mentre leggi A Volte Ritornano, in occasione della proclamazione della Repubblica Italiota, il collettivo Barabba-log e spirit(ell)i affini ricompaiono sulla scena.
Vi innalzeremo con l'Italia della ricostruzione e delle buone intenzioni e vi sprofondemo nel gorgo dell'Italia della strategia della tensione, delle tangenti e dei colpi di stato simulati. Vi faremo ridere coi discorsi alla nazione e piangere con le lettere private. Vi faremo esultare tra le gioie dei mondiali e disperare tra le bombe nelle piazze.
(Ma forse esagero)
Affiancati dagli immarcescibili e implacabili Dj Klaus Augenthaler e Vj Demon Later che ci bombarderanno con un'Italia brutal-pop di chinotto, festivalbar, Milano da bere, "ciu gust is mei che uan", colpo Grosso, l'almanacco del giorno dopo, cantanti coprofagi, la 500, Lascia o raddoppia, equipe84, cynar, le tette di Serena Grandi, il totogol, polizziotteschi e Rosalino Cellamare, andremo festosi incontro alla nostra ipocalisse quotidiana in un paese che non considera, non agisce, non si (com)muove e nemmeno sbuffa.
(Ma forse...)
Ci trovate questo giovedì, 2 giugno 2011, al Mattatoyo, dalle 19 in poi, anche perché, di nuovo, con emorragica leggerezza il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh...

domenica 29 maggio 2011

Schegge di Liberazione: una specie di audiobook

Sull'internet, specie nel collettivovoci, un sito bellissimo che dovreste avere nei preferiti, ci sono dei baldi giovani che hanno letto e registrato alcuni pezzi dal nuovo Schegge di Liberazione:
Le letture delle Schegge dell'anno scorso, invece, le trovate qui.

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Questo post verrà aggiornato ogni volta che troveremo altre schegge vocali in giro per la rete. Poi magari, un giorno, raccogliamo tutto e facciamo uno zippone scaricabile. Una specie di audiolibro.

venerdì 27 maggio 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Tonnone

(torna a grande richiesta - non è vero - la rubrica culinaria fiorveluta)

Prendete un bisteccone di tonno, bello rosso. Fatelo marinare con olio, vino rosso e capperi, kummel, semi di sesamo. Questa cosa deve durare quattro ore almeno. In queste quattro ore guardate un film che ne duri almeno tre, sennò la ricetta non viene bene.

Sgocciolate un po' il bisteccone di tonno dalla marinata e poi mettetelo sulla piastra calda, qualche minuto per lato. L’interno del tonno deve rimanere rosso.

Dovreste avere fatto dei crostini di pane con dei capperi, pomodori secchi tritati, olio e aglio tritato… e una fetta di prosciutto sopra. Crudo, con il grasso. Fatene tanti e guai a voi se servite della verdura o delle patate. Il contorno è rappresentato dai crostoni.

Beveteci del vino rosso, forte. Chi sostiene il contrario non sa vivere.

giovedì 26 maggio 2011

Trucchi della borghesia (17)

Quando fai il biglietto del treno con le macchinette o sul sito di Trenitalia, se vuoi vedere tutte le soluzioni, glielo devi specificare.

Cicatrici: Il buco

(Posizione)
Indefinita.

(Cause)
Ti si vedono le costole.
Eh.
Davvero: ti si vedono le costole.
Eh.
Ma non ti sembra troppo?
Troppo?
Troppo poco.
Eh.
È che davvero, fai impressione: ti si vedono le costole.
Allora non mi guardare, pensavo, non mi toccare, no? Non mettermi un dito addosso come fossi San Tommaso, non c’è nessuna comunione da onorare, sai?

Invece dicevo solo: Eh.
A 14 anni ero magrissima.
Mi pesavo ogni mattina prima di far finta di fare colazione: scarsi 42 chili nei giorni in cui mangiavo un po' di più e 40 di norma, che norma poi non era. I miei ossi ben in vista non si sono mai frantumati. Nemmeno una botta, nemmeno una cicatrice, nemmeno una tintura di iodio, mai una caduta, mai fatta male. Non ho avuto nemmeno un'indigestione o un'influenza, a 14 anni.
Il pericolo peggiore era svenire sotto al sole delle 3 di pomeriggio, lo scongiuravano tutti, mi avvisavano in continuazione, invece no: funzionavo benissimo. Passavo il tempo tra scuola, libri, biblioteca, un numero di ore di attività fisica che variava dalle 3 alle 6 al giorno. Le femmine della mia classe mi dicevano strana, mi guardavano come un vestito mal cucito e i maschi cominciavano a notarmi come un essere movente e attraente, nonostante il peso, mi guardavano parecchio, anche timidamente, ma erano pruriginosi; eppure non stavo mai completamente da sola. Mi preoccupavo di distanziare chiunque, non riuscendoci mai fino in fondo. Ho pensato qualche volta che ci provassero gusto a tenersi così vicini, a vedere cosa c’era di morboso da curare e vestire, ma soprattutto toccare.
Guardandomi da fuori, che è una pratica strana, mi ci sono abituata un po’ per volta come se avessi iniziato a gestire un superpotere, analizzavo ogni millimetro del mio corpo per conto suo. La visione sintetica d’insieme, quella che ti accompagna mentre provi i vestiti o passi di sfuggita davanti a una vetrina e ti specchi, quella che hai in mente quando qualcuno parla di come ti sta una cosa o come sei fatto, quella vanità finita e armonica che si ha verso il proprio corpo io non l’avevo mai provata.
Ero un chirurgo della mia immagine allo specchio: ossessivamente, annotavo ogni giorno di quanti millimetri il mio corpo sforava da un lato, su una giuntura, su un angolo di articolazione; quando mi vestivo, riuscivo a pensarne ogni centimetro e ricalcarlo con la mente, lo rifacevo ogni mattina come si fa una statua, lavorando il marmo freddo e sperando di sporcarmi le mani il meno possibile.

Le ossessioni non accettano i buchi, gli spiragli, le smussature, l’accondiscendenza. Le ossessioni hanno sempre una punta, uno spigolo e un buco da rattoppare che mia madre sperava di vedere, prima o poi. Dal mio uscivano diverse cose: la passione per gli altri, la curiosità, le buone maniere, il cibo sì ovvio, la voglia di fare le cose e quella di andarmele a cercare e una cicatrice ancora sfilacciata che lo rimarginasse.
Il corpo, credo, fa di tutto per farsi bello, siamo noi che cadiamo, ci imbronciamo, lo nascondiamo, ci trucchiamo troppo. Di suo tende ad essere perfetto. Il mio a un certo punto si è cicatrizzato contro ogni controllo: a modo suo, un modo storto e scellerato, si è curato, aggiustato.

Ogni tanto dico di essere cresciuta un giorno preciso, a un’ora precisa, a 20 anni, dentro un camerino di un negozio a Bologna. Compravo un vestito di seta, mi serviva per un matrimonio, ero all'università da otto mesi, era maggio e in camerino ho notato per la prima volta un principio di cicatrice: verticale, asimmetrica, sui miei capelli di nuovo lunghi, sui fianchi morbidi e sul seno. Vedevo il buco tutto intero, mi sembrava enorme e senza fondo, come il pozzo in cui cado nell’incubo peggiore e nello stesso istante questa cicatrice iniziava a richiuderlo, quel buco.
Una cicatrice lunga, la più brutta che io potessi immaginare, chirurgica, di colore più chiaro del normale della mia pelle, raggrinzita nel mezzo e tonda, morbida sugli estremi, accogliente come il corpo di una donna. Si sarebbe vista tutta la vita, mi avrebbe seguito come il più fedele dei cani.

(Conseguenze)
L’impiccio.

Impiccio da dire è fastidioso perché c'è "im" e mi viene spesso da dire "in" se sto parlando o scrivendo da un po', mi succede sempre, e poi fa rima con capriccio.
Ecco: è una cicatrice impicciona, questa, ogni tanto la gratto e se sanguina devo occuparmi per forza di lei, non posso farne a meno, come di un bambino capriccioso. Mi fa perdere tempo.
È l'unico difetto che ha, in fondo, farmi perdere tempo.

lunedì 23 maggio 2011

Cicatrici: Senza gloria

[riceviamo e pubblichiamo la cicatrice di Pino Zennaro, conosciuto ai più come "thunalab", il prode copertinista di Schegge di Liberazione outtakes]

(Posizione)
Addome inferiore, a destra.

(Cause)
Una cicatrice chirurgica, precisa e pulita. Quello che rimane di una appendicectomia.
Avevo sei anni e di quell'episodio mi ricordo di me sul letto d'ospedale che gioco con un piccolo palombaro. Giocattolo "tecnologico", il pupazzetto infatti riempito d'acqua andava a fondo e per farlo risalire si soffiava aria attraverso un un tubicino che teneva infilato dietro alla schiena. Sul lettino non si poteva giocare con l'acqua e quindi, per dare alle immersioni una parvenza di realtà emettevo dei ben cadenzati bl…bl…bl... Da qui, probabilmente, la futura passione per i film "di sommergibili".

(Conseguenze)
Una cicatrice senza gloria, niente a che fare con una sana lesione procurata sul campo. Una cicatrice in anestesia totale non te la puoi vendere con gli amici e allora nelle mie fantasie immaginavo una cicatrice sullo zigomo destro, precisa e pulita, ma procurata da una mensur.

di Pino Zennaro "thunalab"

venerdì 20 maggio 2011

Biografie essenziali (117)

William Shakespeare durante gli anni perduti (1585-1592) andava sempre al mare. Disegnava quel che vedeva. Tornava a casa. Colorava la tela. Poi la rompeva in piccoli pezzi. Dopo la restituiva al mare. E il giorno dopo, andava al mare, tornava a casa, colorava, ecc ecc. Poi s'è stufato.

Trucchi della borghesia (14)

Garageband e derivati.

giovedì 19 maggio 2011

Trucchi della borghesia (13)

L'ukulele.

La seconda stesura: di bastoni, telepatia e altro ancora

La prima cosa che penso quando mi parlano di trasparenza è la spiegazione che Céline dà sul suo modo di scrivere e sulla resa dell’oralità nei suoi testi. Se immergete un bastone dritto nell’acqua il riflesso ve lo farà vedere storto, se lo tirate fuori, lo piegate un poco e lo re-immergete, ecco che dal pelo dell’acqua l’immagine sarà dritta. Le sue piegature o storpiature furono fortissimi attacchi ai canoni formali della lingua scritta francese ma non siamo qui a parlare di questo. M’interessava l’esempio, che secondo me sta a dimostrare che nell’ambito della cultura e dei rapporti umani la trasparenza è un artificio. Noi tutti abbiamo bisogno di una seconda stesura, per chiarire meglio ciò che vogliamo far sapere agli altri e a noi stessi.

Basti vedere anche i tentativi di scrittura automatica dei surrealisti: nessuno, nemmeno lo scrivente stesso era in grado di comprendere fino in fondo la sequenza delle parole scelte e per questo più che alla psicanalisi (che presumeva di poterlo fare) mi pareva che fossero molto interessati all’eros, alle scampagnate e al vino. Come dargli torto.

Altra cosa, c’è un bellissimo racconto di Cortázar, in cui il protagonista, un impiegato alle nazioni unite come lui, comincia a selezionare la propria vista privilegiando di volta in volta un dettaglio e cancellando il resto del paesaggio umano e giorno dopo giorno si concentra solo sulla marea di cappelli che passeggiano insieme a lui sui boulevard, poi sugli occhiali, sulle pipe, sul percorso che un succo d’arancia sta compiendo nell’apparato digerente di un suo superiore, sulle lacrime della sua segretaria che gli sembrano due piccole fontanelle. E questo mi ha fatto pensare che, anche se a volte mi piacerebbe vedere al di là degli oggetti fisici, come ad esempio mentre sto in macchina e davanti ho il rimorchio di un camion che è talmente grande da bloccarmi la visuale, certamente vedere in giro tutto quello che accade nei nostri corpi sarebbe forse interessante ma quasi sicuramente disgustoso.

A proposito di camions, mi piace molto fare strade basse, alternative ai soliti percorsi, ma per me non c’è niente di più inquietante, fuori posto e losco di un camion che alle due di notte ti sta davanti su piccole stradine di campagna a senso unico. Poi magari lui, il camionista, si sarà anche perso, ma in quei momenti forse vorrei davvero avere i raggi X.

Altra assurdità che ci rimanda alla trasparenza è la telepatia, il potere di leggere le menti. C’è un racconto geniale che si chiama “Fantascienza per telepati” di E. M. Blake, è in una raccolta Urania che mi hanno regalato. Pagina bianca, tranne una riga breve in mezzo: “Beh, voi sapete quel che voglio dire.” Che in originale deve avere tutto il sapore dell’intercalare monotono e placido. Non credo che in giro per il mondo esistano ancora progetti che finanziano questi esperimenti ma vorrei contattarli per spiegare loro che è tutto inutile. È tutto inutile anche secondo Wittgenstein perché senza il linguaggio e ripetuti, forse infiniti come nel caso di Sisifo, tentativi di comunicare e d’interagire, i nostri cervelli ammuffirebbero e non penserebbero nemmeno più.

D’altra parte, alcuni desideri di trasparenza non riescono a risolvere il problema. Qualche anno fa un video, con credo colonna sonora dei Radiohead, diviso in due parti mostrava la giornata tipo di un bambino indiano, sfruttato, malnutrito e sporco lavorare alla fabbricazione di una maglia che veniva indossata dall’altra parte dal bambino americano nella sua giornata tranquilla, passata tra scuola, amici, giochi e famiglia, non sa dell’altro.
Qualcuno chiama tutto questo “Feticismo delle Merci”, ma non credo che etichette, targhettine o certificati di qualsiasi tipo possano aiutarci da questo velo di Maya perenne, se si cerca sempre la scappatoia. Vicino a mio zio, che fa il contadino, c’è un tizio che ha una porcilaia e l’affitta a mesi o settimane, come fosse un hotel. I maiali vengono da tutt’Europa, soggiornano per un po’, a seconda della legge di riferimento nazionale, e poi tornano in patria con la certificazione di maiale italiano, e quindi più buono e più costoso dei cuginetti che non sono venuti in gita. Se non fosse grottesco sarebbe geniale, le bestie ricevono la cittadinanza prima degli uomini. Non pensavo nemmeno che potessero cambiarla.

La nostra società stessa, tornando in tema, come diceva Zola crollerebbe dopo due giorni di verità perché è fondata sul segreto, sulla paranoia, su saperi strategici conosciuti da pochi. Sarebbe buffo se tutti i cittadini di Rimini sapessero dov’è il bottone di lancio dei missili balistici intercontinentali anti-Urss. Ancora più buffo sarebbe una caccia al tesoro cittadina a quel bottone.
In realtà credo che non reggeremmo a due giorni di verità a livello più micro, più domestico. Un commento schietto, un gesto indeciso, un’interpretazione sbagliata e il cenone di Natale si tramuterebbe in una strage. Perché siam pur sempre scimmie evolute, d’accordo, con diplomi, lauree, specializzazioni, corsi di formazione, apprendistato, atti notarili, giuramenti solenni, pretese d’aldilà ma pur sempre scimmie e come tali, permalose oltre ogni dire, io per primo.
Credo anche che la trasparenza non ci toglierà dall’arbitrio, dal caso, dall’incidente non calcolato, che traspare in controluce dalle nostre vite e solo uno scienziato pazzo direbbe il contrario.

La rivoluzione sarà mentale o non sarà”, diceva quello, prima di venire elettrificato fino all’infermità fisica e forse mentale in vari manicomi francesi. A lui non è andata molto bene ma credo però che se cominciamo a cambiare noi stessi e a rimanere aperti e disponibili senza troppe paure, dimenticheremo la trasparenza e accetteremo la serena opacità del mondo.

Ps: A dimostrazione della mia teoria, non ho effettuato una seconda stesura (effetto trasparenza), quindi immagino sia un discorso un po’ balzano, ma, a discapito della mia teoria, non me la prenderò in caso di esclusione.

Ps2: Non ho scritto nulla sulla pubblicità perché non la capisco e perché alla Conad, dato che son mancino, vado sempre nelle direzioni opposte agli altri clienti e rischio sempre di venire investito dai loro carrelli.


Come gli articoli/racconti che avrete letto in giro un po' ovunque, anche questo è contenuto, sotto vuoto con aglio, cipolla, patata e carnazza nel mitico Prospektiva 53, la rivista che in rete dicono sia la nuova McSweeney's, ma mica perché ci scrivo io, sia chiaro...
poi oggi siamo pure sul Corriere...

mercoledì 18 maggio 2011

Un bel tappo nella tuba

Quel giorno, nei primissimi anni '90, avevamo messo tutti i banchi contro ai muri per sgomberare il centro dell’aula, le sedie erano in cerchio ed erano venute due ragazze dal consultorio per spiegarci l’HIV e i metodi contraccettivi. Alla fine della lezione, le due ragazze avevano indetto un piccolo concorso interno: dovevamo inventarci, a gruppi di due o tre, dei nuovi metodi contraccettivi secondo le indicazioni che ci avevano dato e le cose che ci avevano spiegato. Dovevamo anche inventarci come pubblicizzarlo, questo nostro nuovo metodo, come in un mondo dove le pubblicità dei contraccettivi, ci avevan detto le due signorine, sono lecite e non spaventano nessuno.

Con Gabriele, il mio migliore amico, che era in gruppo con me, e che come me era tutto felice e spudorato per tutti quei racconti di cazzi e fighe che girvavan per l'aula quel giorno lì, ci siam messi lì a pensare per venti minuti, il tempo che ci era stato dato per portare a termine l'opera. E sarà perché ero bravo a disegnare ed ero anche un bimbetto creativo, sarà stato l'argomento interessante e, come dire, stuzzichevole, boh, ma alla fine abbiamo vinto il primo premio, e ci siamo messi davanti a tutta la classe a spiegare il nostro nuovo metodo contraccettivo. Avevamo uno slogan che diceva: “un bel tappo nella tuba e puoi farlo anche a Cuba”.

Si trattava, nello specifico, di un tappo vero e proprio di emulsione espansa – come facessimo a undici o dodici anni a sapere cosa fosse un’emulsione espansa dev’essere stato per via del padre di qualcuno di noi che lavorava nel settore delle emulsioni espanse, non mi ricordo – e questo tappo di emulsione espansa veniva iniettato da siringa con dei forellini fatti apposta direttamente nelle tube della malcapitata. Il gonfiarsi dell’emulsione allargava, durante l’iniezione, un cerchietto di rame che stava sulla punta della siringa, e tutto l’apparato, tappo e cerchietto di rame, avrebbero dovuto ostruire per qualche mese le vie d’accesso alle ovaie. Dopo qualche mese il tappo si sarebbe sgretolato da solo e il rame era lì, durante lo sgretolìo, per evitare che spermatozoi vivi arrivassero agli ovuli – ci avevano spiegato che il rame è uno spermicida, una di quelle nozioni tecniche che poi uno si porta dietro tutta la vita. Infine, c'era una cordicella, iniettata inizialmente attraverso l’ago, che, tirata, avrebbe estratto il tondino di rame alla fine alla fine del processo di sgretolamento del tappo.

(ho provato, a memoria, a ricreare il disegno che ci fruttò la vittoria del concorso)

Ora, io non so se fosse davvero un buon modo per darci un’educazione sessuale, quello lì, nei primissimi anni ’90, perché tutte le volte che spiego a una donna il mio innovativo metodo di contraccezione che avevo inventato alle medie, questa mi guarda con una faccia schifata e, prima di andarsene per non ritornare mai più, si mette le mani sul ventre e fa un gridolino. Spero almeno che, nel frattempo, dopo tanti anni, le cose siano un po’ migliorate, nell’insegnamento dell’educazione sessuale. O almeno, chissà, c'è da sperarlo, nell’assegnazione dei premi agli studenti.

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Il pezzo in questione, per il quale mi scuso con tutte le signorine che passando di qui si siano trovate a leggere, è uscito sul numero 53 di Prospektiva, quella rivista letteraria col packaging da mettere in frigo, diretta dal prode Fabrizio Gabrielli. Il tema del numero 53 è la Glasnost', che vuol dire anche Pubblicità/Trasparenza (mi han detto), e dentro ci sono dei barabbisti (tipo osvaldo, simone rossi, carlo dulinizo) e altra gente che solitamente ha l'anima bella (tipo cratete, Bonino, Paolo Nori, Madame Psychosis, eccetera). Accàttatela, perché l'hanno tirata in sole 200 copie.

martedì 17 maggio 2011

Cicatrici: Un ombrellino

[riceviamo e pubblichiamo la cicatrice di Benedetta "Sonqua", più o meno]

(Posizione)
Schiena. Bacino. Gamba sinistra (la gamba destra non c’è più). Utero. Avambraccio destro. Fronte. Collo. Piede, quello rimasto, però anche sul destro, undici ne contavo. Addome. Zigomo destro (per la verità sullo zigomo è piccola e con un po’ di trucco si nasconde). Fianco. Gomito sinistro.

(Cause)
A sei anni ho avuto la poliomelite e quasi morivo. Poi invece sono rimasta viva, ma una gamba ha smesso di crescere ed è venuta più piccola. E zoppicavo. Dopo anni hanno scoperto che non era poliomielite. Era spina bifida. Fa niente, ormai. L’anno scorso l’hanno tagliata, la gamba. Cancrena, pare.
Camminare, da allora, è sempre stato faticoso. Però, lo stesso, a diciassette anni mi piaceva chiacchierare, pettinarmi, fermarmi lì a leggere, conoscere le persone. Vivere, insomma. Solo che andavo troppo piano. Allora, ogni tanto, per non rimanere da sola, parlavo con un’amica immaginaria che compariva quando soffiavo sui vetri e la disegnavo sulla soglia di una porta piccola piccola. Era un bel modo di guardare fuori, oltre i vetri, almeno finché le gocce della condensa cancellavano tutto. Allora, a quel punto parlavo con le persone vere e, più di tutto, mi piaceva mettermi seduta sull’autobus su uno dei sedili ordinati due a due dietro l’autista e fare domande a chi mi sedeva vicino. E ogni tanto mi dimenticavo anche di quel pizzicore nella gamba. E ogni tanto, quando mi innamoravo, sentivo il pizzicore nel ventre. E quando lo dicevo, la gente si spaventava e io ridevo.
Un giorno, a diciassette anni, sono andata a scuola con l’ombrellino. Mi piaceva. Un amico mi aspettava alla fine delle lezioni e non volevo arrivare tardi. Camminavo piano, l’ho già detto. Mi affretto. Ci incontriamo. Parliamo e sorridiamo. Aspettiamo l’autobus. Eccolo. Ci apre le porte. Saliamo e mi tengo al corrimano. Nell’altra mano i quaderni. Due mani. L’ombrellino! L’ho dimenticato! Chiediamo scusa e scendiamo. Corre a prendere l’ombrellino il mio principe azzurro con gli occhi da indio. Aspettiamo di nuovo ma non importa. Sorridiamo. Arriva. Spalanca le porte. E intravedo l’autista. Che bel viso che ha. Gli occhi, forse un po’ tristi. Le braccia, forse un po’ tese. L’aspetto più timido che nervoso. Acerbo, avrei detto. Nuovo, ho pensato.

"Eravamo saliti da poco sull'autobus quando ci fu lo scontro. L'incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. (…) Il tram, nella curva, trascinò l'autobus contro il muro. (…) Non è vero che ci si rende conto dell'urto, non è vero che si piange. Io non versai una lacrima. L'urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come la spada trafigge un toro."

(Conseguenze)
Ci sono state 32 operazioni. Non ricordo più in che ordine. Tra una e l’altra, c’è stata l’immobilità dei primi anni. Ferma, nel letto, a guardare un soffitto che i miei genitori hanno abbellito regalandomi un baldacchino e uno specchio. Poi, insieme ai dottori e ai busti di gesso, sono arrivati i colori. L’amore non mi abbandonava e mi dipingevo su tela e regalavo quello che di me custodivo ai miei spaventati e giovani amori. Finché non hanno voluto più niente da me e, allora, sono entrata in possesso di un'intera collezione di autoritratti.
Diego un giorno li ha visti e si è innamorato di me. Mi ha sposato. La pittura, l’impegno civile, la passione per il Messico, il lavoro, le lotte. Il mondo era a colori vivissimi e bellissimo e le cicatrici solo segni esteriori dei dolori che semplicemente sentivo. Sapevo che non sarei mai stata l’unica ma speravo d’essere amata. Il primo aborto mi ha disorientata. Il secondo mi ha piegata. La mia vagina trafitta continuava ad ammonirmi attraverso la cicatrice sul fianco, eppure mi sarebbe piaciuto.
Poi, un giorno, sono entrata in una stanza. Diego mi ha dato le spalle troppo a lungo e mia sorella è stata troppo solerte nell’aiutarmi. Per la prima volta mi sono vergognata delle cicatrici che loro conoscevano così bene, pensando che le avessero disprezzate durante i loro amplessi.

"Le cicatrici sono aperture attraverso le quali un essere entra nella solitudine dell’altro."

Quando un anno dopo Diego è tornato da me, l’ho accolto di nuovo. Insieme a tutti gli amanti e a tutte le amanti che avevo avuto. Mi servivano tutti allora, come oggi, per disegnare il mio profilo messicano. Per ricordarmi gli eventi da scrivere nel diario che ho iniziato a tenere. Le cicatrici oggi urlano e io rispondo che sento il dolore perché sono viva e "dopo tanto giacere sdraiata, non voglio bruciare" neanche un minuto di quello che rimane. Ogni tanto sono stanca e per questo, solo per questo, a volte, "I hope the end is joyful - and I hope never to return".

Queste cicatrici sono lib(e)ramente tratte da un libro di carta. È la biografia di una donna che, secondo me, oltre ad essere una brava pittrice aveva dentro fuoco e forza come nessuno. Il libro l’ha scritto una signora che fa la giornalista e che si chiama Slavenka Drakulic’ e l’ha intitolato Il letto di Frida. È lungo 160 pagine, è stato tradotto da Elvira Mujcic ed è stato stampato da Baldini Castoldi Dalai, nell’anno del secondo Schegge di Liberazione. Le cose tra virgolette e le frasi in inglese sono di Frida Kahlo e sono tratte dai suoi diari.

di Benedetta "Sonqua"

lunedì 16 maggio 2011

(Trascrizione più o meno fedele di) Barabba Edizioni: una casa editrice tanto carina, senza soffitto e senza cucina

[quello che segue è il testo del nostro intervento di ieri alla Room To The Future, dentro al Salone del Libro; può darsi che dal vivo abbiamo cambiato qualche parola, non mi ricordo]

Buongiorno.
Si sente se parlo così?

Prima di cominciare vorremmo ringraziare Bookrepublic – gli appuntamenti dei giorni scorsi erano interessantissimi e ci scusiamo anticipatamente se questo nostro intervento imbolsirà tutta la questione, ma è la prima volta che partecipiamo al Salone del Libro, anche da spettatori; e poi io ho questa cosa che non riesco a parlare a braccio e mi sono scritto tutto, spero che non vi disturbi – ringraziamo tutti e in particolar modo vorremmo ringraziare Matteo Brambilla, che ci teneva così tanto che dicessimo qualcosa sui libri elettronici da convincerci e portarci qui, su questo pulpito, a dire delle cose.

Anche se sul programma c’è scritto “Schegge di liberazione”, con la elle piccola – dopo ve lo spieghiamo, Schegge di Liberazione, con la elle grande, anche se forse ne avete già sentito parlare – in realtà il nostro intervento si intitola “Barabba Edizioni: una casa editrice tanto carina, senza soffitto e senza cucina” e parlerà di Barabba Edizioni, una casa editrice che non vende niente, non spende niente, non guadagna niente e, insomma, non esiste, anche se pubblica dei libri. Parleremo anche di questi libri, che sono essenzialmente degli ebook gratuiti, dei libri digitali, ma ce n’è uno anche di carta. Portate pazienza.

***

Quella che stiamo per raccontarvi è una storia che inizia nel 2006, quando il mio socio e il sottoscritto – all’epoca eravamo solo amici e non ancora soci – pensiamo Dai, facciamo una rivista letteraria, una rivista di carta, da mettere nelle edicole almeno della zona di Carpi – siamo di Carpi, noi. Avevamo trovato anche un nome: Barabba, perché il mio socio era stato folgorato da Pär Lagerkvist, e Barabba ci sembrava proprio un bel nome. Così ci siamo trovati, noi due insieme a qualche altro carpigiano, abbiamo aperto un blog, l’abbiamo chiamato, appunto, Barabba e abbiamo fatto una riunione per capire cosa scriverci dentro e come costruire la rivista. Visto che eravamo persone serie, abbiamo anche tenuto un verbale che adesso carlo dulinizo, il mio socio, vi leggerà.

(carlo dulinizo legge il verbale della riunione barabbista del 2006)

E poi cos’è successo? È successo che abbiamo scoperto di non essere delle persone così serie, e dopo aver fatto un po’ di campagna promozionale sul blog, dopo che avevamo rifiutato anche un invito di Ugo Cornia per entrare in una rivista letteraria che forse si sarebbe intitolata l’Accalappiacani e aver così scoperto di essere anche poco furbi, niente, Barabba, la rivista, non ha mai visto la luce, come si dice.

Così abbiamo smesso anche di scrivere sul blog, e siamo tornati ognuno alle proprie occupazioni: io l’internet, carlo dulinizo, il mio socio, a laurearsi in lettere e nuotare in piscina.

***

All'inizio del 2010, anzi per la precisione alla fine del 2009, mi è venuto da riesumare il blog. Ormai non lo seguiva più nessuno, ma visto che mi ero da poco iscritto a FriendFeed e che su FriendFeed era pieno di gente con dei blog che si commentava a vicenda, mi sembrava una bella idea, riaprire Barabba.

Verso la metà di febbraio del 2010 mi sono incontrato col mio socio e gli ho chiesto Be’, ma se facessimo un ebook sulla Resistenza, visto che quest’anno a Carpi – siamo di Carpi, ve l’ho già detto – c’è l’anniversario di Materiali Resistenti? Lui, il mio socio, che è un tipo un po’ tecnovillano, mi ha detto Ok, pensaci tu per le questioni dell’internet, io organizzo la serata di presentazione. Va bene, gli ho risposto, proviamo a fare ebook collettivo, in pdf, proviamo a coinvolgere le blogsfera. Lui mi ha detto Va bene. Io gli ho detto Allora siam d’accordo. Lui mi ha detto Sì. Così abbiamo cominciato.

Su FriendFeed ho chiesto Cosa ne dite se facciamo un ebook collettivo sulla Resistenza? Il giorno dopo avevo già un centinaio di nuovi iscritti e di commenti e delle mail che dicevano più o meno la stessa cosa: sì, che bella idea, io ci sto.

Da lì siamo partiti a reclutare scrittori, disegnatori, fotografi e poeti su tutti i social network disponibili (facebook, twitter, tumblr, il blog, eccetera, anche se quello che ha funzionato di più, in termini di partecipazione, è stato FriendFeed). Ci eravamo inventati un tormentone: “Barabba dice 26×1” (una specie di calco del segnale in codice che ha fatto partire la Resistenza, a suo tempo, negli anni ’40, e diceva: “Aldo dice 26×1”) e il 15 di aprile, la deadline per la consegna, avevamo già raccolto una sessantina di contributi tra racconti, saggi, ragionamenti, poesie, disegni, foto e perfino un monologo teatrale di venti pagine.

Poi l’abbiamo impaginato e l’abbiamo chiamato Schegge di Liberazione, forse ne avete sentito parlare. L’abbiamo pubblicato gratuitamente su internet, in pdf, e presentato in pubblico il 24 aprile 2010, in un locale di Carpi, con delle letture e dei blogger che erano venuti da mezza Italia per leggere in pubblico i propri pezzi o quelli altrui, o anche solo per vedere cosa stava succedendo. Dentro ci sono anche dei racconti bellissimi, come quello che adesso vi legge Ilke Bab, l’ha scritto lei, si chiama Resistenza.

(Ilke Bab legge Resistenza di Ilke Bab)

È andata così bene che ci han chiamati a leggerlo a Bologna, a Milano, a Venezia, Perugia, Roma, Fabriano e anche in una radio. Insomma, un ebook e un tour di presentazione, proprio come per i libri veri.

***

È andata così bene che verso la metà di maggio, sempre nel 2010, mi incontro col mio socio e gli dico: Be', ma se facessimo un ebook sulla Sfortuna, visto che quest'anno a Carpi – adesso sembra che a Carpi succeda un po' tutto – c'è il decennale del Festival di Filosofia e il tema è la Fortuna. Lui, il mio socio, che è sempre un tipo un po' tecnovillano, mi ha detto Ok, pensaci tu per le questioni dell'internet, io organizzo la serata di presentazione. Va bene, gli ho risposto, allora siam d'accordo. Lui mi ha detto: sì.

E abbiamo ricominciato. Su FriendFeed, di nuovo, ho chiesto Cosa ne dite se facciamo un ebook collettivo sulla Sforuna eccetera eccetera? Il giorno dopo avevo già una valanga di commenti e delle mail che dicevano più o meno tutti la stessa cosa: sì, che bella idea, io ci sto.

E ancora, su facebook, su twitter, su tumblr, a voce, eccetera, abbiamo reclutato scrittori, fotografi e disegnatori. Ci eravamo inventati un altro tormentone: “Accettate la sfiga” (che era il primo gioco di parole che ci è saltato in mente, ma alla gente piaceva). E il 9 di settembre, la deadline per la consegna, avevamo già raccolto una settantina di contributi, tra racconti, saggi, ragionamenti, poesie, disegni e foto; e alcuni degli autori avevano già partecipato a Schegge di Liberazione, altri erano nuovi.

Poi abbiamo impaginato (due volumi, questa volta, in pdf) e chiamato Cronache di una sorte annunciata (che era il secondo gioco di parole che ci è saltato in mente), forse ne avete sentito parlare, è uscito venerdì 17 settembre 2010. L'abbiamo pubblicato gratis su internet e presentato in pubblico quella sera lì, in un locale, con delle letture e dei blogger che ancora erano venuti da mezza Italia per leggere in pubblico i propri pezzi o quelli altrui, o anche solo per vedere cosa succedeva. Dentro ci sono delle cose che secondo noi vale la pena leggere, come il pezzo di Simone Rossi che si chiama Art, Attack! e adesso ve lo legge osvaldo, cioè l’elena.

(osvaldo legge Art, Attack! di Simone Rossi)

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È andato molto bene anche Cronache di una sorte annunciata. Con migliaia di download. E intanto eravamo ancora in giro a leggere Schegge di Liberazione. E insomma, ci siam detti Va bene, siamo contenti così, portiamo ancora in giro Schegge per un po’, dove ci chiamano, poi magari torniamo alle nostre normali occupazioni, io l’ingegnere oberato, dulinizo il letterato disoccupato e il nuotatore.

Solo che, insomma, quando inizi a fere una cosa, poi ti rimane il tarlo lì che ti gira nel cervello, vuoi provare a spingerti più in là, percorrere strade nuove, e intanto che il mondo gira, il tempo passa, il 2010 sta per finire e il tarlo è ancora lì che tarla, succede che esplodono gli ebook reader: Kindle, iPad, telefoni che leggono i libri, cose così. E mentre convertiamo e pubblichiamo Schegge e Cronache anche in formato epub e mobi, si avvicina anche il compleanno del mio socio tecnovillano.

Quasi quasi, mi son detto, quasi quasi prendo i suoi post di Barabba sulla sua esperienza in piscina – a trent’anni, il dulinizo s’è iscritto in piscina, ha imparato a nuotare e ha scoperto un mondo; settimanalmente ne parlava nel suo modo un po' iperletterario su Barabba – prendo i suoi post, mi son detto, e ci faccio un ebook.

E l’ho fatto, l’ho impaginato e l’ho chiamato “Pensieri in apnea” e in fondo ci ho scritto “Barabba Edizioni”, era la prima volta che lo scrivevamo da qualche parte.

Pensieri in apnea è stato pubblicato online, gratuitamente, in pdf e in epub, il 20 dicembre del 2010, giorno del trentunesimo giro intorno al Sole di carlo dulinizo. Si tratta forse di un caso unico nella Storia dell’editoria: il primo libro pubblicato all’insaputa dell’autore, il primo regalo di compleanno fatto al mondo, invece che al festeggiato. Adesso Carlo ve ne legge un passo.

(carlo dulinizo legge Luoghi Comuni da Pensieri in apnea di carlo dulinizo)

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E Schegge di Liberazione? Schegge di Liberazione, intanto, continuava a girare. Ci chiamavano a leggerlo in giro, c’era sempre più gente che veniva per leggere o per ascoltare o per vedere cosa stava succedendo. Allora, già che ci siamo, abbiamo pensato, facciamo questo Barabba Edizioni, rifacciamo Schegge di Liberazione anche nel 2011, magari collaborando con l’ANPI di Carpi.

Come l’anno scorso, al grido, lanciato su tutti i social network, di “Barabba dice 26×1” (l’abbiamo riusato perché funzionava benissimo) sono arrivati oltre novanta contributi. Solo che stavolta, così, per provare, volevamo fare un libro di carta, e novanta contributi, per ragioni fisiche ed economiche (ché noi, come molti di voi, siam di quella schiera che tira un po’ a campare), non ci stavano tutti. Così ne abbiamo selezionati una manciata, e questa manciata, l’abbiamo impaginata, stampata e rilegata con un po’ di colla e filo. Dietro ci abbiamo scritto “Barabba Edizioni” e “Creative Commons”, non c’è ISBN, costa solo sei euro, ma noi ce ne teniamo 3,40 (che è il costo della stampa per ogni copia) e il rimanente lo diamo all’ANPI.

Il 25 aprile del 2011 dovevamo presentarlo all’Ex Campo di Concentramento di Fossoli, solo che poi è successa una tragedia, in piazza a Carpi, e allora, ufficialmente, è andata a finire che l’abbiamo presentato ieri sera alla Società Operaia di Mutuo Soccorso d’ambo i sessi Edmondo De Amicis, qui a Torino, ed è stato un tripudio di pacche sulle spalle, abbracci e partigiani.

Intanto l’abbiamo anche pubblicato gratuitamente su internet, in pdf, epub e mobi. E dentro ci sono ventinove racconti che secondo noi sono bellissimi, come la poesia di Azael che si intitola “Virginia che non si muove” e che vi legge Ilke Bab.

(Ilke Bab legge Virginia che non si muove di Azael)

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Non sono necessariamente i migliori, i contributi che abbiamo messo dentro a Schegge di Liberazione 2011, ma sono quelli che forse più si adattavano al formato, ma non è detto, non siamo mica degli editori veri. Gli altri sessanta e passa li abbiamo raccolti in un altro ebook che abbiamo pubblicato il 9 maggio scorso, sempre gratuitamente, in pdf e in epub, su internet. Sono 268 pagine di storie resistenti, si chiama Schegge di Liberazione Outtakes, e dentro ci sono dei racconti come quello di Ludovica Anselmo che adesso vi legge osvaldo, cioè l’elena.

(osvaldo legge Storia di Anna e Anselmo di Ludovica Anselmo)

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E poi basta, adesso siamo qui a dire delle cose al Salone Internazionale del Libro, da editori, seppur inesistenti.

In futuro, non lo sappiamo. Forse faremo un altro ebook, “Cicatrici”, perché un giorno, per caso, sul blog ci siamo messi a scrivere dei post che raccontavano delle cicatrici che avevamo addosso, quelle vere, quelle delle cadute in bici, per intenderci, e si vede che i blogger si erano abituati a mandarci le cose, perché stavolta non abbiamo dovuto nemmeno inventarci un tormentone: i racconti ci arrivano spontaneamente. Sarà un bell’ebook, secondo noi, e lo leggeremo anche dal vivo, può darsi, una volta o due. Chissà.

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Ecco, questa è la storia di Barabba Edizioni, questo è quello che abbiamo fatto, nel nostro piccolo, che improvvisamente è diventato grande senza che lo volessimo. E tutto grazie all’internet, alle nuove tecnologie digitali e al pensiero che forse la gente è pronta per capire che la parola è importante, mentre lo è meno il materiale sul quale quella parola è impressa, e questa, a noi, sembra un po’ una rivoluzione. Siamo contenti, di farne parte, anche se siamo solo degli artigiani un po’ punk, anche se facciamo le cose gratis per darle via gratis, anche se ufficialmente non esistiamo.

E mentre questa rivoluzione, piano piano, cerca di farsi spazio nella società, noi continuiamo a girare l’Italia con Schegge di Liberazione, con dei reading musicati che ormai sono diventati un po’ il nostro cavallo di battaglia. Ci hanno chiamati alla Salumeria del Rock ad Arceto di Scandiano, alla festa dell’ANPI di Migliarina, a Radio Kairos… e perfino in Francia, dove la neonata sede dell’ANPI vuol farci leggere le Schegge a Parigi, davanti al console. Se ci pensiamo, come si dice, ci trema l’orlo delle mutande.

Se ne avete voglia, potete venirci a vedere quando leggiamo in pubblico e, se ve la sentite, potete venire a leggere anche voi, potete dircelo all'ultimo minuto, tanto noi siamo lì.
Oppure potete venirci a trovare nella sede di Barabba Edizioni, una casa editrice che non esiste, ma che è tanto carina, senza soffitto e senza cucina. Ci trovate se cercate su google. Oppure a Carpi, in via dei matti, al numero zero.

Grazie a tutti.
Abbiamo finito.

venerdì 13 maggio 2011

Ma era bella, bella davvero

Forse lo sapete già, comunque ve lo ricordiamo.

La carovana barabbista si sposta in massa in quel di Torino, dove sabato 14 maggio, alle 20:30, presso la Società Operaia di Mutuo Soccorso d'ambo i sessi Edmondo De Amicis facciamo le Schegge di Liberazione.

Il giorno dopo, invece, domenica 15 maggio, dalle 14:00, siamo proprio dentro al Salone del Libro, nella Room to the Future sotto il cappello di Bookrepublic, a dire delle cose, a parlare delle Schegge di Liberazione, vecchie, nuove e outtakes, ad accettare la sfiga di Cronache di una sorte annunciata, a scandire le bracciate dei Pensieri in apnea, a cucire le future Cicatrici. Faremo un pubblico discorso dal titolo, del quale ci scusiamo preventivamente, Barabba Edizioni: una casa editrice tanto carina, senza soffitto e senza cucina, intervallandolo con letture, fuochi artificiali e sorpresine.

Come si dice, accorri numeroso.

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(UPDATE: Barabba Edizioni, da oggi, è anche su twitter, seguilo, se vuoi)

Stanotte ho sognato tantissimo (2)

Eravamo a Lisbona. Lisbona è uno di quei posti che non ho mai visitato, in cui vorrei andare presto però. Eravamo a piedi a passeggiare in silenzio per le vie di Lisbona, che non so come sono per davvero, forse potrei controllare su Google Immagini, ma nel mio sogno eravamo a Lisbona perché stavamo andando a casa di Carlo a poggiare i bagagli, eravamo appena arrivati. Carlo abitava lì in una casa con la veranda e il porticato, in una zona senza negozi - forse non eravamo a Lisbona, adesso ho un dubbio - avevi un cappello che ti rendeva buffo, ogni tanto era caldo, lo toglievi e ti asciugavi il sudore sulla fronte.
Ci faceva assaggiare il gelato alla frutta che aveva fatto la sua coinquilina.

È col latte di soia, ma è buono lo stesso.
Mmmm.
No, davvero, anche io facevo mmmm e poi niente: è buono.

Doveva essere estate.
Io invece avevo gli occhiali da sole tondi scuri.

Sembri un'ape, mi dici.
E tu...Non lo so. Non lo so cosa sembri, dico.
Perché sono bellissimo. Guardami, guarda come mi bacia il sole.

Davvero eri bellissimo, ti toglievo il cappello ché avevo voglia di toccarti i capelli e arruffarli e metterci le mani dentro: sono stata lì cinque minuti mentre ti lasciavi andare su un dondolo con la faccia al sole.
Dopo qualche ora siamo andati in città, in centro, siamo saliti su un tram che andava in salita, lungo una strada stretta fra due file di case dritte e lunghe, infilate a perdita d'occhio.
A un certo punto il tram si è fermato, non andava avanti e il freno era tiratissimo, per non farlo scappare; noi eravamo tranquilli, stranamente, mentre il vociare insistente e ingarbugliato degli altri ci faceva pensare che forse avremmo dovuto preoccuparci. Invece no, noi eravamo lì impassibili, senza scendere né salire, senza pensare né parlare. Di fronte, sul muro della casa di fronte, fuori dal tram c'era una scritta verde.

Secondo me dovresti baciarla. Diceva così.

mercoledì 11 maggio 2011

Biografie essenziali (116)

Se vogliamo essere precisi precisi, sono dieci anni che le ceneri di un uomo immaginifico, ennesima vittima dello starebene-e-informa, vagano nel mare sparate con un cannone in mare grazie a Terry Gilliam.

Un filone di pane lungo dodici metri

A 16 anni inizia a scrivere un romanzo, Sere d'estate.
A 17 anni gli muore la madre di cancro. Dovevo raggiungere la gloria per vendicare l'affronto del destino che aveva fatto morire la madre che adoravo religiosamente.
A 20 anni finisce in carcere per 20 giorni.
A 24 anni dichiara di voler abbattere il quartiere gotico di Barcellona e di voler combattere contro ogni forma di regionalismo.
A 25 anni suo padre vede un suo disegno e lo disereda. Sulla tela c'è un'immagine del Sacro Cuore con sotto scritto A volte sputo sul ritratto di mia madre per il gusto di farlo.
A 30 anni sale sul podio di una conferenza e pronuncia la frase: La sola differenza tra me e un pazzo è che io non sono affatto pazzo.
A 31 anni si riconcilia con suo padre. Nello stesso anno il suo migliore amico si suicida.
A 32 anni tiene una conferenza su quattro temi: Paranoia, I preraffaeliti, Harpo Marx e Fantasmi. Durante la conferenza indossa uno scafandro per esprimere visivamente l'idea che la sua opera penetra nelle profondità dell'inconscio, ma si sfiora la tragedia perché, a causa di un problema tecnico, rischia di asfissiare. In dicembre la sua faccia è sulla copertina del Time.
A 33 anni dedica un poema all'ex marito della sua attuale moglie, cioè l'uomo a cui ha fregato la donna.
A 34 anni trascorre l'autunno nella villa di Coco Chanel nella campagna francese.
A 35 anni pubblica la Dichiarazione d'indipendenza dell'immaginazione e dei diritti dell'uomo alla propria follia in segno di protesta contro la decisione del comitato direttivo di una mostra che gli impediva di esporre, sulla facciata del padiglione, una riproduzione della Venere di Botticelli trasformata in sirena invertita, con la testa di un pesce e le gambe di una donna.
A 41 anni collabora con Alfred Hitchcock per le sequenze oniriche di Io ti salverò, con Ingrid Bergman e Gregory Peck.
A 44 anni progetta La carriola di carne, un film neo-mistico con Anna Magnani come protagonista, ma il progetto non sarà mai portato a termine.
A 45 anni è accolto in udienza dal Papa. L'anno dopo muore suo padre.
A 51 anni va a tenere una conferenza alla Sorbona di Parigi a bordo di una Rolls Royce bianca riempita di cavolfiori.
A 53 anni inizia a concepire un night club da costruire all'interno di un albergo a cinque stelle di Acapulco. Il locale ha la forma di un riccio di mare che può contenere fino a cinquecento persone, sostenuto da quattro enormi zampe di mosca. Il progetto non sarà mai portato a termine.
A 54 anni tiene una conferenza sul Principio d'Indeterminazione di Heisenberg. Sul tavolo appoggia un filone di pane lungo dodici metri.
A 55 anni è accolto in udienza dal Papa (un altro).
A 59 anni presenta la propria autobiografia in una libreria di New York. Il pubblico presente lo trova sdraiato su un letto in vetrina, collegato a un apparecchio che registra la sua attività cerebrale ogni volta che firma una copia. Poi il grafico con i movimenti del suo cervello viene stampato e regalato a chi compra il libro.
A 62 anni gira un documentario sulla propria vita. La voce narrante è di Orson Welles.
A 73 anni la prostata.
A 75 anni viene nominato membro straniero associato dell'Accademia di Belle Arti di Francia. Il presidente Tony Aubin lo saluta così: Lei è un genio. E Lei, come noi, lo sa. Nessuno può dubitare di questa realtà. Se così non fosse, Lei non sarebbe tra noi e soprattutto non sarebbe se stesso. Lo stesso anno prende la decisione di farsi ibernare dopo la morte. Aspetterò nell'elio liquido senza impazienza.
A 78 anni gli muore Gala.
A 85 anni Salvador Dalì muore, oggi sarebbe il suo compleanno, peccato che non sapesse ballare.

Trucchi della borghesia (12)

Il conguaglio.

Biografie essenziali (115)

Martha Graham, forse la più grande coreografa e danzatrice del secolo scorso, ha dato lezioni anche a Woody Allen. Immaginiamoceli. Il paradiso deve essere qualcosa di molto simile.

Biografie essenziali (114)

Robert Nesta Marley, detto Bob, aveva un alluce che non voleva levare.

martedì 10 maggio 2011

L’editoria capovolta

Per bootleg, ai miei tempi, di solito s'intendeva la registrazione del concerto di qualcuno, presa di straforo e venduta su cassettine dalla grafica approssimativa. Credo di averne uno di Zappa, ancora, da qualche parte. Si faceva per omaggiare il gruppo e per tirare su qualche soldo in parti uguali, fregandosene altamente di diritti d'autore eccetera. Bene, io ho fatto - sto facendo - lo stesso, ma con Salinger.*
Sono molto contento che un giorno di qualche mese fa Stefano Amato si sia svegliato la mattina e abbia pensato che gli sembrava un peccato che non esistesse la versione in italiano di The Inverted Forest. Ma queste sono cose che forse sapete già. Come forse già sapete, ma non è detto, che il mio rapporto con Salinger è abbastanza personale e acritico, quindi le mie lodi sperticate verso La foresta capovolta sono forse dei semplici moti di pancia e di cuore. Certo è che La foresta capovolta, tradotto in maniera così splendida, mi sembra, ma non sono un esperto, è una delle cose più folgoranti che abbia scritto JD, anche se di JD confesso di non aver mica letto tutto, me lo centellino lungo l'arco dell'esistenza, come se fosse un buon whisky, con tanto di golata d'acqua gelata dopo ogni sorso.

Sono comunque molto contento, ci penso ogni tanto, che in questo nostro nuovo mondo selvaggio l’editoria riesca a funzionare anche al contrario, dal basso verso l’alto, dal sottosuolo, dove un semplice cittadino, che di lavoro magari fa tutt’altro, può mettersi a tradurre Salinger con impegno e, forse con un gesto illegale ma meraviglioso, fare un regalo al mondo, o almeno a quel micromondo formato dai poveri cristi che, come il sottoscritto, con una sommaria e spannometrica conoscenza dell’inglese non avrebbero mai potuto godere così tanto di un’opera enorme come The Inverted Forest.

Poi non lo so, non sono un esperto, non posso dare giudizi sulla traduzione, so solo che ho finito di leggerlo ieri sera e ho ancora il cervello ribaltato. Grazie Stefano. Grazie di cuore.

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La foresta capovolta, tradotto da Stefano Amato, si scarica gratuitamente qui, ma ti consiglio di regalare due lire al traduttore, ché se le merita tutte. Se poi vuoi sapere di cosa parla il libro, c'è scritto tutto nella prefazione tratta da In cerca di Salinger, Ian Hamilton, Minimum Fax, Roma, 2001. Ma dovresti leggerla alla fine. Io faccio sempre così, con le prefazioni.

(UPDATE 19-5-2011: La foresta capovolta, ufficialmente, su internet, non la trovi più. Però, insomma, ci siamo capiti...)

lunedì 9 maggio 2011

Trucchi della borghesia (11)

Il succo di frutta all'ace.

Se lo dice l'Unità, allora è vero

C'è una storiella che ogni bambino emiliano si sente raccontare dai propri avi nati e cresciuti - e morti, anche, delle volte - nei tempi d'oro dell'Emilia rossa. La storiella parla di un nipote che dice al nonno, in italiano, ché i nipoti il dialetto non lo sanno più, Nonno ma lo sai che gli elefanti volano? Ma valà, gli fa il nonno in dialetto, ét sémo? (Ma vai a girare, sei scemo?). Ma nonno, risponde il bimbo, c'è scritto su l'Unità. Il nonno si fa subito serissimo e gli dice Be', vulér propria no, i svulàsen. (Be', volare proprio no, svolazzano).

Oggi Barabba è su l'Unità come "consiglio di lettura". Ringraziamo abbondantemente Matteo B. Bianchi, lo abbracciamo e lo ricopriamo di baci.

Schegge di Liberazione: outtakes

All’inizio di Schegge di Liberazione, quello del 2011, quello di carta, si diceva così:
Come l’anno scorso, al grido di “Barabba dice 26x1” sono arrivati oltre novanta contributi. Solo che stavolta volevamo fare un libro di carta, e novanta contributi, per ragioni fisiche ed economiche (ché noi, come molti di voi, siam di quella schiera che tira un po’ a campare), non ci stavano tutti. Così ne abbiamo selezionati una manciata, e questa manciata, impaginata, stampata e rilegata con un po’ di colla e filo, è quella che avete in mano in questo momento. Non sono necessariamente i migliori, i contributi che state toccando, sono quelli che forse più si adattano al formato, ma non è detto, non siamo mica degli editori. E questo oggetto è solo una delle tante facce di quella cosa chiamata Schegge di Liberazione, quella cosa che un giorno d’aprile del 2010 ci è scoppiata in mano ed è diventata improvvisamente una cosa grande.
Così, come abbiamo fatto l’anno scorso, anche nel 2011 gireremo un po’ l’Italia a leggere questi racconti, quelli nuovi, quelli vecchi e quelli che per i motivi sopra elencati non han potuto profumare di carta – ma li mettiamo in un altro ebook, abbiamo deciso.
Eccolo qui, in pdf e in epub.
Buona lettura.

Del non dire mai più CAZZO in casa

Dei panni appena usciti dalla lavatrice:
"Cazzo papà, son tutti bagnati".
Della stufa che tira male in giornata ventosa:
"Cazzo, c'è un sacco di fumo".
Del cucchiaino che cade:
"Cazzo".

domenica 8 maggio 2011

A guardare le macchine passare

Il picchiettìo delle scarpe contro il vetro è coperto Klà, lo sai benissimo, coperto dal frastuono del traffico che avete davanti. Lo sai benissimo, ma tu sei Klà, il batterista del gruppo e quando non parli tamburelli con le dita o molleggi i piedi su qualsiasi superficie. Una roba da far diventare tutti matti. Nessuno ti chiama più Sergio, almeno da tre anni, e il tuo nome non ti manca.

Di cognome fai Clavarelli, ma sei talmente logorroico che anche i tuoi amici ti urlano "Klà, sst!" e una sera, reduce dalle prime birrette discount, hai pensato Klà più ssh, Clash! ed è stato il tuo primo giorno di felicità almeno dal giorno del gioco della bottiglia in terza media.

Quella cucina su cui ti arrampichi ormai ogni sera, ti ha regalato tutte le note che il suo telaio made in Bulgaria è in grado di fare. Più che note sono vibrazioni ormai quelle che senti e ci hai i segni dei fornelli sulle chiappe talmente incistati che i compagni di classe pensano che a casa ti prendano a cinghiate col cavo della TV. Ma tu insisti, batti e risbatti, non puoi fare altro. A volte pensi che non sai fare altro...

Tua madre dice che è qualcosa di ossessivocompulsivo, e ti piacerebbe chiamare la band con una delle medicine che ti propina e che tu fingi di prendere, ma non vuoi svelare troppo le carte. Il nome del gruppo ancora non ce l'avete, Fergusson dice che lo si trova dopo, alla fine. Che per adesso l'importante è suonare, provare, imparare. O come dice lui Suonare, suonare suonare finchè non ci esce il sangue dalle orecchie. Lui, Ferguson, è convinto che Beethoveen sia diventato sordo per quello, Suonare suonare suonare, è così che è diventato quel che è diventato, gliel'ha detto Pispi, suo cugino, ma nessuno di voi gli crede.

Ferguson si chiama Fausto Malagoli. Si crede figo solo perché è alto, magro e con l'occhio chiaro. E si atteggia a leader del gruppo, come ogni chitarrista. Ma voi lo chiamate come l'allenatore perché ci assomiglia un sacco, dite che è tipo lui tra trent'anni e ormai quel nome lì, che gli avete appiccicato, gli è rimasto.

Gli riconoscete un briciolo di autorità solo perché è l'unico che ruba le birrette al discount mentre voi fate i pali e distraete Paolo, il commesso. Distraete...tu fai il palo, ti muovi in giro tra le corsie e parli parli, fai sentire la tua presenza, intanto Fausto al tuo cenno ruba mentre Serena fa l'oca con Paolo: però spesso anche tu rimani incantato a guardarla, e Fausto s'incazza, ma vedere la Di Vaio sporgersi verso il bancone, vedere tutta quella sostanza che diventa una forma di cuore, non riesci proprio a staccarti Klà, e allora meglio due birre in meno e un po' di paradiso nel cuore della notte mentre correte via lungo il sentiero d'erba che vi porta al divano e alla cucina.

Vi trovate qui perché tu qui stai in silenzio, non fermo, ma almeno in silenzio, ti ci portano anche per quello. Ti piacciono le macchine, non ne capisci granché, e allora diventi riflessivo e gli altri si rilassano. Birre, patatine e qualche risata prima che vi tocchi tornare per la cena.

Ricordi quella volta che è passata una Viper? una macchina strafichissima, da corsa, tutta blu con due strisce bianche parallele al centro che partono davanti e continuano fino all'alettone di dietro. Tu non l'avevi mai vista. Ha fatto un rombo speciale, tutto suo, non ne hai più sentito uno simile, nemmeno le Ferrari, che qui ormai vi siete già abituati a vedere. E tu dallo spavento, sei scattato con le gambe, la punta dei piedi s'è impigliata nella maniglia del forno e hai rischiato grosso, di cadere di faccia, piatto, con una di quelle facce da stupido, che di solito le vedi solo nei film. Serena e Ferguson, stravaccati sul divano bianco sporco di fianco a te, ti han visto pendere, rischiare uno sfacelo e risalire, come nel video di Smooth Criminal. In un microsecondo hai tolto le punte delle all stars, ti sei appoggiato sul bordo interno del forno e hai ripreso equilibrio sui fornelli. E mentre lo facevi ti sei girato verso di loro. Dicono che avevi una faccia da o minuscola, non riescono a dire altro, stanno ancora ridendo. E tu stai ancora pensando se qualcuno da fuori, di quelli che passano lì, quelli tutti presi dalla loro vita, magari il tipo stesso della Viper, si sono accorti di te, di voi, che lì, a otto metri di distanza dall'autostrada A1 chilometro 182 direzione Bologna-Modena, da una casa disabitata con un immensa vetrata vuota, su una cucina rotta e un divano marcio, state lì, a guardare le macchine passare.

(Questa storia, ovviamente inventata, nasce da un piccolo dettaglio, questo sì reale, catturato durante un viaggio in autostrada qualche giorno fa, mentre pensavamo a questo progetto qui, che si chiama SPAZI INDECISI e si propone di mappare e narrare le vecchie storie e i nuovi utilizzi degli edifici disabitati per adesso in Romagna per poi aprirsi a tutta l'Italia. L'esperimento è più facile da fare che da spiegare. Buona Caccia)

Trucchi della borghesia (10)

La penna Replay.

venerdì 6 maggio 2011

Cicatrici: Quella volta in cui sconfiggemmo i messaggeri del dolore

[riceviamo e pubblichiamo la cicatrice di Ciccio Rigoli, altrimenti conosciuto come cicciorigoli]

(Posizione)
Ginocchio destro.

(Cause)
Alla fine degli anni Ottanta le domeniche sera erano scandite dall'apprendimento dell'anatomia con “Siamo fatti così”. Tutto quello che so di come funzioni il corpo, di cosa siano gli anticorpi e di che cosa facciano tutto il giorno i globuli rossi lo so attraverso questo benemerito cartone animato, foraggiatore delle facoltà di medicina negli anni a venire. Ho sempre il sospetto che i medici che mi visitano abbiano deciso di fare il loro mestiere per verificare se davvero i virus siano gialli e abbiano i capelli tirati in su con il gel.
Quella domenica, grande puntata di Siamo fatti così. Si andava sulla neurologia, mica sulle solite battaglie tra globuli bianchi e batteri. Stavolta la battaglia si svolgeva tra i messaggeri del dolore e i nostri difensori. I primi cercavano di arrivare al cervello più velocemente possibile a bordo delle loro motociclette miniaturizzate, i secondi spargevano dei liquidi viscosi per terra per farli scivolare. A volte vincevano gli uni, a volte gli altri. A volte si sentiva dolore, a volte no, dipende da quanti sono i messaggeri e da quanto è scivoloso il liquido che li ostacola.

Quella domenica mattina sono con la mia graziella. La mia prima bici da grande, rossa, presa da mio nonno in una televendita. Salgo per una strada sterrata, fangosa e cosparsa di pietra, in una bieca imitazione del ciclocross. Forse la strada erta, forse un sasso, non so, fatto sta che scivolo e cado su un sasso. Col ginocchio. Nessun dolore. Penso: “Che forti i miei difensori, che con le loro sostanze viscose hanno impedito ai messaggeri del dolore di arrivare al mio cervello”. Incontro mia zia, le dico che sono caduto ma non mi sono fatto niente. Mi sollevo il pantalone e, invece della consueta pelle sigillata in un pezzo unico, una graziosa faglia di alcuni centimetri si apre sul ginocchio. Aperta e profonda. A casa la faccio vedere a mia madre e dico che non ho sentito niente, mia madre invece sente qualcosa dentro e sbianca. Recuperiamo mio padre e via, all'ospedale. Ricucito, tre punti.

(Conseguenze)
Oggi il mio ginocchio ha un punto con la pelle più bianca, leggermente rigonfio, e ogni volta che lo guardo mi chiedo come mai quella volta i miei difensori riuscirono a vincere i messaggeri del dolore e a non farmi sentire nulla. Non è più accaduto che non sentissi alcun dolore cadendo in bici, ma mi piace pensare che ancora oggi i miei difensori, la sera, davanti al camino, ricordino di quella volta in cui neppure un messaggero del dolore riuscì ad arrivare fino al cervello. Forse i tre punti che mi hanno dato quel giorno dovrei dedicarli a loro. Ragazzi, perché trionfi la giustizia sportiva dopo tanti anni, sappiate che quel tre a zero è tutto vostro.

di Ciccio Rigoli “cicciorigoli”

giovedì 5 maggio 2011

Se c'è

Se l'anima c'è, è capace di pensare? Perché sennò che cosa fa, l'anima, nel corpo, se c'è e non pensa? E se c'è, l'anima, a cosa pensa quando il corpo e la mente vengono stuprati e poi annullati dall'alzheimer, dalla demenza senile? Se ne sta lì bella bellina, per degli anni, se c'è, l'anima, ad aspettare lo spegnimento della macchina per poi salire al cielo? Ma allora, che anima sarebbe, se ci fosse, a starsene tranquilla mentre intorno un uomo esplode? O invece, chissà, si attorciglierebbe, l'anima, se esistesse, s'attorciglierebbe in convulsioni rabbiose, s'accanirebbe, maledirebbe la propria impotenza di poter mantenere un filo d'umanità dentro un corpo, il suo corpo, alla deriva? A cosa serve, l'anima, se c'è, se non s'incazza?

mercoledì 4 maggio 2011

Son fatto così (8)

Son fatto che quando la bigliettaia mi chiede Quali posti vuoi?, io rispondo Quelli lì, sditazzando lo schermo della biglietteria nelle ultime caselline, e allora lei mi avverte Guarda che lì c'è lo schermo, e io le dico Lo so, così quella mi guarda come si guardano gli idioti e mi dà il biglietto, e poi vado a sedermi in poltrona in prima o seconda fila, in terza al massimo, se la sala è grande, ché mi piace che lo schermo occupi tutto il mio campo visivo, e se c'è da spostare la testa per seguire una scena, la sposto. Solo che se il film è in 3D mi viene da vomitare. Son fatto così.

lunedì 2 maggio 2011

Sigarette spente (5)

La differenza è questa,
che preferisco gli schiaffi del sorgo ai tuoi
che preferisco affaticarmi su questa pianura che in te
che non fumo più e ho l'alito di menta.

Grano e ocarine
terra e aria
fiato.

Ma te che ne sai.

Cicatrici: Risate e giri di corsa

[riceviamo e volentierissimo pubblichiamo la cicatrice di Mastrangelina]

(Posizione)
la guancia sinistra, poco sotto l'occhio.

(Cause)
Sette anni. Risate e giri di corsa intorno al tavolo, giri di corsa intorno al tavolo e risate. Mi ricordo una voce che mi dice di fermarmi, che devo andare a letto, di fermarmi che altrimenti mi faccio male. Una voce che però ride, mi insegue e gioca. Vuol farmi smettere di correre, ma al tempo stesso continua il gioco, continua la corsa. Quasi mi spinge. E allora ancora risate e giri di corsa intorno al tavolo. In pigiama, un pigiama chiaro con dei fiorellini piccoli e leggeri, quasi impercettibili. Poi uno scarto a sinistra e la botta. La maniglia del frigorifero tra me e il corridoio. Ma chi è che riesce a farsi male con la maniglia del frigorifero? Ecco io ci sono riuscita. Una botta secca, neanche forte. Una botta non forte ma precisa. Di quelle che ti preoccupi perché vedi la faccia preoccupata degli altri. Perché tu di tuo ripartiresti a correre se non fosse per una strana sensazione di calore e di bagnato che ti scivola sul viso e ti macchia il pigiama chiaro. Allora le risate si interrompono. Senti che ti tengono il viso e ti guardano con preoccupazione. La voce si è fatta seria e spaventata e ti dice di stare immobile. Un attimo e prima arriva il pianto e poi il tremito. Dopo mi ricordo una coperta, una corsa in macchina fino al Meyer, l'ospedalino dei bambini. Mi ricordo l'ingresso con la doppia porta a vetri e il viso del dottore, un dottore giovane, moro, col viso allungato che mi guarda serio e subito mi propone un patto. Un patto segreto tra me e lui. Nessun babbo o mamma in quel momento. Si tratta di un patto tra persone grandi. Io accetto perché il suo sguardo è bello. Sono passati trent'anni e quegli occhi li ho ancora davanti. Devo stare ferma immobilissima e lui manderà via il sangue e mi rimetterà a posto il viso senza che dopo si veda niente. Io dentro di me non ci credo neanche un po' ma accetto. Forse ho capito che tanto di più non posso fare. Ricordo che mi sono messa ferma ferma sul lettino, ho chiuso gli occhi e ho iniziato a respirare lentamente. Un pizzicottino dietro l'altro. Dodici pizzicottini in tutto e poi una carezza sulla fronte e un "ho finito, sei stata davvero bravissima".

(Conseguenze)
Sono stata ferma quella notte e quel dottore ha mantenuto la sua promessa. Non ho preso il sole in viso per un bel po' e adesso la cicatrice sta lì lunga e stretta stretta sulla mia faccia. Sta lì ma non si vede quasi. Se mi trucco non c'è, sparisce quasi del tutto. Negli anni sono stati tanti quelli che mi han detto di toglierla ma io ho deciso che la tengo. Ormai fa parte pienamente di me, come un neo o come la forma del naso. E poi in fondo in fondo di quella sera mi ricordo soprattutto le risate e i giri di corsa intorno al tavolo. E i ricordi belli credo sia meglio non cancellarli.

di Mastrangelina

Trucchi della borghesia (8)

Le pentole con lo scolapasta incorporato.