lunedì 28 febbraio 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Farfalle carioca a pappagallo

Prendete delle farfalle (la pasta). Comprate del formaggio bavarese a fette e chiedetevi dove sarà la parte brasiliana della ricetta, visto che i colori del pappagallo classico (giallo e verde) sono gli stessi del Brasile. Mentre riflettete sui nazisti rifugiati in Sudamerica, comprate una zucchina e un uovo per commensale. Ci vuole anche della cannella quindi chiamate Eder (chi ha capito questa al volo, vengo a fargli la ricetta a casa, un giorno). Al momento giusto (quando tu sai diventare un altro, come direbbe Mina) dovrete avere in casa pure del Marsala piuttosto buono.

Dunque: tagliate le zucchine a rondelle e soffriggetele in due cucchiai d'olio e una noce di burro. Niente cipolla, niente aglio. Càpita, non allarmatevi, ma se volete aggiungerli non si offende nessuno. Intanto scocciate le uova e mescolatele con una forchetta. Aggiustate di sale, se vi piace usare il sale. Tagliate a listarelle il formaggio bavarese e lasciatelo aspettare.

Quando le zucchine cominciano a dorarsi, spruzzate la cannella (che si deve sentire) e un bicchierino di marsala, alzando il fuoco per un paio di minuti. Bevetevi un goccio di marsala, intanto, che è buono.

A questo punto, a cottura ultimata, buttate dentro la pasta (le farfalle) che avrete cotto in acqua salata. Unite l’uovo sbattuto e fate saltare a fuoco altissimo per il tempo necessario a cantare il primo giro di BRASIL, na na na nana nanaaaaaaaaaaaaa… (fino a quando ridice BRASIL, BRASIL). Cantatela senza correre troppo, iniziando a cantare da dopo che avete alzato il fuoco. La tempistica è IMPORTANTISSIMA.

Su ogni piatto, formaggio bavarese a listarelle, a piatto ancora caldo. Parte piano, ma a metà vi pentirete di non averne fatte il doppio.

domenica 27 febbraio 2011

Biografie essenziali (104)

William Shakespeare, durante gli anni perduti (1585-1592), non scrisse niente. Era troppo impegnato a sincronizzare la lavatrice, lo scaldabagno, l'asciugatrice e la lavastoviglie con il nuovo piano per il consumo intelligente dell'energia elettrica. Ma ogni volta dimenticava il phon.

Dito

George Washington, come un po' tutti i padri della patria, più o meno d'ogni patria, era uno che scriveva spesso e male, anche se non così male come, per esempio, il collega Benjamin Franklin (si veda il pessimo Consigli per diventare ricchi - Hints To Become Rich, Ibis 2010) o, ancor peggio, il nostro Giuseppe Garibaldi, grafomane carico di velleità letterarie da fare quasi spavento (provate a leggere il romanzo Cantoni il volontario, se ci riuscite). E tuttavia, all'età di tredici anni, il piccolo George compilò ben centodieci Regole di civiltà e di comportamento decoroso, ricopiando alcune delle regole compilate nel 1618 da un certo gesuita francese e inventandosene alcune di sana pianta. Si dice che le Regole di civiltà e di comportamento decoroso di Washington fossero diventate uno dei documenti fondativi della società americana post-rivoluzionaria, e alcune di esse son davvero interessanti e ben pensate, come:
2° Quando siete in compagnia, non portate le mani su parti del corpo che di solito non sono messe in mostra.
oppure:
5° Se tossite, starnutite, sospirate o sbadigliate non fatelo sguaiatamente [...] e non parlate quando state sbadigliando.
oppure:
9° Non sputate sul fuoco del camino [...], inoltre non appoggiate i piedi sul bordo del camino, specialmente se sopra vi sta cuocendo il cibo.
oppure:
11° Non continuate a cambiare posizione in presenza di altri e non rosicchiatevi le unghie.
oppure:
12° [...] non schizzate il viso di nessuno con la vostra saliva avvicinandovi troppo mentre parlate.
oppure:
13° In presenza di altri, non schiacciate insetti, pulci o pidocchi; se vedete uno sputo denso o del sudiciume, copritelo con destrezza con un piede e se è sul vestito di un vostro compagno, toglietelo in privato; se lo sporco è invece sui vostri vestiti, ringraziate chi ve lo toglie.
oppure:
90° Quando siete seduti a tavola, non grattatevi e non sputate o tossite e non soffiatevi il naso.
oppure:
92° [...] non tagliate il pane con un coltello unto.
oppure:
94° Se intingete il pane nel sugo usatene un pezzo che potete mettere in bocca in una sola volta; a tavola non soffiate sul brodo.
oppure:
95° Non portate il cibo alla bocca con il coltello in mano, né sputate i semi di qualsiasi crostata di frutta ma metteteli su un piatto.
oppure:
100° Non pulite i denti con la tovaglia, il tovagliolo, la forchetta o il coltello.
Mancano totalmente, nella lista, le regole che si riferiscono ai servizi igienici, e ciò sembra davvero strano, specie per un'epoca in cui la carta predisposta all'uso opportuno ancora non esisteva, sarebbe stata introdotta negli Stati Uniti quasi un secolo dopo.

Vorrei quindi integrare le centodieci Regole di civiltà e di comportamento decoroso di George Washington con una centoundicesima massima fondamentale, insegnatami quasi subito, circa sei anni fa, dal suocero, il vecchio malvissuto, non appena divenne mio suocero. La massima in questione, da applicarsi, eventualmente, in assenza di carta igienica in quantità adatta allo scopo o in presenza di particolari pulsioni, perversioni o frivolezze personali dell'individuo, recita più o meno così:
Chi col dito il cul si netta,
tosto in bocca se lo metta,
così resterà pulito
muro, culo, carta e dito.

Biografie essenziali (103)

Fedor Michajlovic Dostoevskij disse che in futuro metà dell'umanità avrebbe scritto e l'altra metà avrebbe letto quel che era stato scritto. Ma non immaginava che nell'arco di un click si sarebbe invertiti i ruoli all'infinito.

venerdì 25 febbraio 2011

Cicatrici: Don't Feed The Seagull AKA se ti fai male le prendi

[Riceviamo e volentieri pubblichiamo la cicatrice di Massimiliano Calamelli, conosciuto come mc e come mcalamelli]

(Posizione)
Ginocchio sinistro.

(Cause)
Quella frase, la parte che segue AKA intendo, ha accompagnato tutta la mia infanzia e buona parte della pubertà, senza però trasformarsi in realtà; ho dovuto attendere il 2003 per coglierne realmente il senso.

Dunque 2003, un pomeriggio di luglio, esterno giorno, spiaggia.

“Ci facciamo una nuotata fino agli scogli?”
“Dai, che ormai mi sono strinato, è dall’una che sono al sole.”

Sciaff, sciaff, sciaff, sciaff, sciaff.

“Saliamo?”
“No, torniamo indietro.”
“Dai, salgo un secondo, mi tuffo, e ritorniamo.”
“Che due palle.”
“Arrivo.”

Salgo, aggrappandomi a uno scoglio, cercando di non mettere i piedi sulle cozze. Ci riesco.

“Hai fatto?”
“Uffa, un secondo, intanto son salito. Cerco un punto buono per tuffarmi e arrivo. Uh, ciao gabbiano!”
“Si vabbè, io mi avvio... Cosa.Cazzo.Stai.Facendo.”
“Dai, cerco una cozza un po’ grande, voglio vedere se il gabbiano la mangia.”
“Voglio tornare giù, muoviti. E occhio a non cadere, lo sai come funziona, no?”
“Lo so, lo so, se mi faccio male poi le prendo.”

Intravedo la cozza delle dimensioni giuste, poggio i piedi su uno scoglio che affiora, immaginando di avere le zampette di un geco. Raggiungo la cozza, la strappo via e la tiro sul sasso per spaccarne il guscio. La raccolgo, tolgo buona parte del guscio rotto, carico il braccio per lanciare il cicciolotto ex-bivalve al gabbiano.

Scivolo.

“No, cazzo, no... Ahia!”

Cado con un ginocchio sullo scoglio sopra i cirripedi e le cozze. I primi non si rompono e mi lacerano, le seconde si rompono e mi tagliano.

“Sei un coglione! Porca troia! Te l’avevo detto, diobono, cosa cazzo sei andato a fare li?”
“Dai, niente, sto bene, adesso arrivo e torniamo a riva”

Acqua di mare, sale, bruciore. Tanto.

Sciaff, sciaff, pausa, sciaff, pausa, sciaff, pausa, sciaff.

Arriviamo a riva e appena il ginocchio sinistro esce dal pelo dell’acqua ci accorgiamo che grondo sangue. E che camminare è fatica. Senza parlare andiamo allo scooter, ci infiliamo i caschi e partiamo verso il pronto soccorso, con la pedana poggiapiedi dell’Habana che diventava pian piano a pois. Dopo un po’, dopo un bel po’, mi parla e mi dice un sacco di brutte parole, e mi dà anche dei cazzotti nella schiena.
Ed eccola, l’illuminazione, il senso compiuto della frase che finalmente appare ai miei occhi.

“Ti sei fatto male, ora le prendi anche. Te l’avevo promesso.”

(Conseguenze)
Giuro, mi ha dato quasi più fastidio quella frase che la pulizia della ferita dai pezzi di cozza e i punti dopo.
E si vede che era la giornata delle illuminazioni, perché siamo passati dai suoi genitori e dopo la descrizione dell’accaduto, guardando sua mamma in faccia, mi è diventato chiaro il significato della parola “Patacca”.


di Massimiliano Calamelli

giovedì 24 febbraio 2011

Schegge di Liberazione: Esempi d'autore - "Preoccupati dei Vivi"

In quegli anni per alcuni il dovere era prendere in mano un fucile e provare a fare un buco in petto a tutti i tedeschi che passavano per via e ai fascisti, possibilmente senza lasciarci le penne e senza mettere in pericolo la famiglia, i contadini, il paese.
Questo contava, sempre, per alcuni più di tutto, più della famiglia, del lavoro, della scuola. Fino a che a scuola, Omero e compagni non ci andarono più. Girava voce della Repubblica Sociale che precettava quelle annate di leva e li voleva tutti nella Guardia Nazionale. Ma loro non ci volevano andare coi fascisti. Il professore di topografia aveva tirato fuori una pianta dell'Appennino, roba militare, avuta chissà come, e aveva detto: "Sassi, Tasselli, voi a casa in treno è meglio che non ci torniate. Andate su da Serra, guardate: questa è la strada, poi verso Mocogno, lì so che ci sono già dei gruppi organizzati, ci sono altri miei studenti, bravi ragazzi, comunisti. Andate, dite che vi manda Garibaldi. "
"Ma noi professore non lo sappiamo se siamo comunisti" avevano ingenuamente replicato. "Frequentiamo il comitato clandestino, ma son tutti uguali, comunisti, socialisti, democristiani..."
"Signori non importa, andate su vi dico, che il tempo stringe, poi quello che siete avrete modo di capirlo, ma se state qui... Adesso è un momento che bisogna scegliere, se stare con o contro i fascisti, tutto qua."
"Contro, noi siamo contro!" avevano esclamato insieme.
E allora via in Appennino, su a piedi con la cartella e dentro i libri di estimo, topografia e matematica. Su così senza dir niente a nessuno, come ladri, banditi, con le scarpe buone, la giacca e il cravattino, i pantaloni con la piega. E per quanto?
"Almeno ci sei tu Nicola, almeno siamo noi due del paese. Alla Marta però le viene un colpo, vaccacane, mi manca già da matti, ma i fascisti pagheranno anche per questo!"
"Tu hai la Marta, sei fortunato, c'hai un pensiero che ti tiene compagnia. Io invece penso che una pistola non l'ho mai presa in mano."
"Dicono che su in montagna fanno l'addestramento, abbiamo imparato trigonometria, impareremo anche questo."
"Non c'è mica tanto da scherzare Omer, il fatto è che se usi una pistola per far centro in un bersaglio è come stare alla fiera, ma poi quando si tratta di sparare a un cristiano..."
"Dici che dovremo farlo?" aveva replicato Omero, come destato bruscamente da un sogno.
"Non lo so, ma conviene prepararsi al peggio" era stata la risposta di Nicola.

(Andrea Moretti, Preoccupati dei Vivi, Gingko edizioni, 2009, pp. 47 - 48 )

Vi ricordiamo che avete ancora altri 19 (diciannove) giorni per partecipare a Schegge di Liberazione 2011. Barabba dice 26 X 1, di nuovo.

mercoledì 23 febbraio 2011

Campagna acquisti (lo straniero)

È con piacere internazionalista che diamo il benvenuto tra le fila dei barabbisti all'emigrata Byron. Di seguito la sua biografia essenziale:

Byron è una donna che ama il baseball in un paese dove l'unico bat & ball game riconosciuto è il cricket. Quando non si distrae a scrivere su JunkiePop e su tumblr, insegna cinema e letteratura all'università, e legge i classici russi.

Ora diciamo tutti insieme: "ciao Byron".

martedì 22 febbraio 2011

Cicatrici: Posso piangere?

[nuova rubrica un poco pulp]

(Posizione)
Gomito destro.

(Cause)
Oggi vado proprio a fare allenamento da solo, mi son detto quel giorno. Eran tempi, quando avevo quattordici o quindici anni, che potevi prenderti su e andare a fare allenamento da solo, che i genitori eran tranquilli lo stesso. Oggi vado proprio a fare allenamento da solo, quaranta chilometri, vado a Pegognaga e torno indietro, dai, ho pensato. E così, allacciato il caschetto, riempita la borraccia, agganciati i piedi ai pedali, via, a Pegognaga.

È stata proprio quella curva stronza di Bondeno, quella che facevamo sempre quando ci allenavamo con tutta la squadra, quella curva che potevi prendere ai trentacinque all'ora e andava bene lo stesso, di solito, bastava tenere alzato il pedale destro, piegarsi un po'. È stata ancor di più quella ghiaina stupida che si forma sull'asfalto dopo la pioggia, è stata lei che mi ha fatto slittare la ruota e finire col culo per terra. E prima del culo, il primo istinto è quello di mollare il manubrio e buttare le mani a terra, e le mani son scivolate sulla ghiaina stupida, e la ghiaina stupida, a un certo punto, la stavo sfregando col gomito, ai venti, venticinque all'ora. La pelle veniva via come quando gratti del parmigiano sulla pasta.

Quando il capitombolo è finito, quando tutto è tornato in silenzio e la testa ha smesso di urlare, faccio un respiro, mi guardo il gomito: si vede l'osso, la carne è stata tutta portata via dalla ghiaina stupida che ancora pende insieme alla pelle e al sangue che scorre come da un rubinetto. Vaccaboia, ho pensato, casa mia è a dieci chilometri da qui. Non c'erano mica i cellulari, nel 1994.

Bon, vado a casa, ho deciso. Mi son tirato su, ho raddrizzato la ruota della bici, che rimaneva comunque un po' imbarlata, come si dice in gergo, son salito sul sellino e, con una mano sola e il braccio ferito alzato a mezz'aria, son tornato a casa. Davvero. Lasciavo delle goccioline ogni due, tre metri sulla strada per dieci chilometri.

Arrivato davanti al portone, a Novi di Modena, a casa mia, ho suonato il campanello.

Mamma, son caduto, mi son fatto male, mi apri? Mia madre mi apre e intanto corre giù dalle scale. Senza pensarci, mi prende, così, vestito da ciclista, e mi porta al pronto soccorso. Io sono zitto zittissimo, in macchina fino a Carpi, entriamo al pronto soccorso e mi dicono che i punti non me li possono dare perché la ferita è troppo larga, manca della carne che deve ricrescere, ci vorrà del tempo. Mi puliscono il gomito, intanto, e brucia un casino, con la botta, l'osso al vento, il disinfettante e tutto il resto, e mi tirano via i sassolini che si sono infilati nella carne. Me li tirano via tutti.

No, uno lo lasciano lì, se lo dimenticano. Me ne accorgo un mese dopo mentre sto facendo degli impacchi di amuchina: vedo una cosa che sembra una crosticina, la tolgo, penso, ci vado sotto con l'unghia e viene fuori un sasso. Deficiente d'un infermiere.

(Conseguenze)
Oggi, se lo guardo, il mio gomito destro, c'è tutta della pelle più liscia del resto del braccio, un po' raggrinzita lì dove è dovuta ricrescere per andare a coprire il buco. E c'è un puntino nero, di pelle molto molto scura e innaturale lì dove c'era il sasso dimenticato. Se la tocco, quella zona di pelle liscia col puntino nero, mi viene in mente che son caduto, mi sono sbrindellato la carne sulla ghiaia tanto che si vedeva l'osso, ho fatto dieci chilometri da solo, sanguinante, sono andato al pronto soccorso, mi son fatto medicare, disinfettare e bendare e non ho mai fatto una piega.

Solo al ritorno dall'ospedale, la stessa sera, ancora in macchina, mi son girato verso mia madre al volante, l'ho guardata un po' e poi son tornato a guardare la strada. Mamma, le ho detto, Mamma, posso piangere adesso?

lunedì 21 febbraio 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Risotto ai colori dell’Africa

I colori dell’Africa son tre: il giallo delle risorse minerarie, il rosso del sangue versato per la libertà, il verde delle foreste.

Mettete a bollire dell’acqua con del dado da brodo. Fatene parecchio. Se ne avanza, saprete cosa farne domani. Comprate due peperoni rossi molto proletari, togliete il filetto interno, sbollentateli un po' e levate la pelle aiutandovi con un coltellino. Tagliateli a pezzettini. Il rosso è fatto.

Fate soffriggere dello scalogno, tostate del riso e poi aggiungete brodo facendo cuocere come fareste per un normale risotto. Aggiungete i peperoni dopo il primo mestolone di brodo. Quando il riso sta per cuocersi, un attimo prima della mantecatura (burro e parmigiano), tagliate PARECCHIA erba cipollina a pezzettini. Il verde è fatto.

Non vi avevo detto di comprare una bustina di zafferano ogni due commensali? Avreste dovuto immaginarlo. Il giallo è fatto.

Quando il riso sta per cuocere, buttate lo zafferano e mescolate. Alla fine buttate dentro l’erba cipollina e mescolate di nuovo.

Alla salute di Marcus Garvey, signore e signori.

domenica 20 febbraio 2011

The Cat Inside

Le testimonianze indicano che i gatti furono addomesticati dapprima in Egitto. Gli egizi immagazzinavano il grano, che attirava i roditori, che attiravano i gatti. (Non vi sono prove che sia accaduta la stessa cosa presso i maya, benché nelle loro terre vi sia un certo numero di gatti selvatici). Questo tipo di ragionamento secondo me non è corretto. Sicuramente la storia è un'altra. I gatti non hanno cominciato con l'essere cacciatori di topi. Donnole, serpenti, e cani sono molto più efficaci come agenti anti-roditori. Io avanzo l'ipotesi che i gatti nascano come compagni psichici, come spiritelli del focolare, e che non abbiano mai deviato da questa funzione.

(William S. Burroughs, Il gatto in noi, 1986)
Benvenuta Natascia Rostòva.

sabato 19 febbraio 2011

Biografie essenziali (di traversatori)

Le biografie essenziali di Barabba son finite sul numero 52 di Prospektiva, una rivista di carta, pensa te, e lo si presenterà oggi e domani al BUK di Modena, il festival della piccola e media editoria, un posto dove la gente come noi spende sovente una quantità indecente di europei.

Le bio in questione sono frutto di un lavoro collettivo con le genti dell'internet, e l'articolo, sulla rivista di carta, che odora di carta, inizia così:
Cristoforo colombo partì dall'Europa e attraversò l'oceano per arrivare in America, guadagnò la fama mondiale.
Charles Lindbergh partì dall'America e attraversò l'oceano per arrivare in Europa, guadagnò la fama mondiale.
Quella che si dice una strategia Win-Win.
Non ci credi? Clicca qui.

giovedì 17 febbraio 2011

Scene da un autotrasporto: Fax

Attaccato al vetro che ci separa dagli sputi degli autisti, abbiamo appeso un foglio con su scritto a caratteri grandi COSÌ la seguente dicitura: “FAX NR. 0522/…”.

Ogni tanto entra uno e chiede “È il numero di fax?”. Pur capendo il senso di sicurezza nel chiederlo e ottenere risposta affermativa, visto che i camionisti non ascoltano mai quello che si dice loro, finisce che ce lo chiedono più volte con alcuni scambi che ricordano molto il tennis giocato da soli contro il muro da piccoli.

“Scusa, è il fax questo?”
“Sì.”
“Scusa, è il fax?”
“Sì, è il fax.”
“Scusa, ma è il fax? Il fax?”
“Sì, £/&$/!(sostituite con bestemmie a scelta)”

Ultimamente cominciamo a dare risposte creative, ovviamente non comprese dagli autisti.

“Scusa, è il fax?”
“No, è un continuum transponder. Occhio a toccarlo che finisci su Alfa Centauri.”

E l’ultima:

“Scusa, è il fax?”
“No. È un gelato. Leccalo, altrimenti si scioglie.”

Don't Panic

Vuoi sapere qual è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto? Adesso te la spiego. C'è una foto che mi vede esultante, sedicenne, pischello, in braghette da ciclista, maglietta attillata della Ciclistica Novese Confezioni Carsil, caschetto aerodinamico e occhiali a mosca. Quando la faccio vedere in giro, di solito, dico Qui ero sullo Stelvio.

Mica vero: dovevamo ancora salire. Eravamo io e mio padre con le bici, e mio nonno col furgone, che ci seguiva. E lo Stelvio, che non finisce mai.

Al decimo tornante son già da solo, mio padre si stacca, alla fine me lo vedrò arrivare dietro sul furgone. Al ventesimo tornante gli alberi cominciano già a diventare sempreverdi. Al venticinquesimo, quando tiro le mani sul manubrio, la ruota davanti si stacca dall'asfalto, siamo al dieci percento, la maglietta è bagnata, ho finito la prima borraccia d'acqua e ho mangiato tutte le barrette di cioccolata che avevo nei taschini di dietro e un po' bestemmio, diobono.

Al trentesimo tornante mi raggiunge un tedesco di vent'anni, mi spinge un po' con la mano sul culo, vuol fare conversazione ma tanto io il tedesco non lo so, e so poco l'inglese, anche, e poi son troppo occupato a prendere fiato. Lui mi regala un muesli e io provo a masticarlo, ma non ho saliva per mandar giù il riso soffiato e colloso e allora lo sputo. Il tedesco se la prende, si alza sui pedali e mi stacca.

Al trentacinquesimo tornante gli alberi non ci sono più, c'è dell'erbetta sparuta, qualche marmotta, un silenzio che ti snerva, delle macchine che scendono dalla cima e senti l'odore dei freni a disco che si sciolgono. Non c'è neanche più il tempo per ritagliarsi una bestemmia tra un respiro e quell'altro, e intanto la testa mi si piega di lato, un orecchio s'intoppa, cerco un rapporto più corto e agile, ma la catena è già sull'ultimo, 39x23, se non mi ricordo male, una roba impossibile.

Quando sali lo Stelvio non puoi mica smettere di pedalare, devi salire e basta, e io son delle ore che spingo, pedalata, pedalata, pedalata, colpo di tosse, pedalata, pedalata, pedalata, il sudore arriva sugli occhi e brucia, pedalata, pedalata, pedalata, bevo un sorso e al quarantesimo tornante non c'è neanche più l'erbetta, i tornanti che restano son tutti lì davanti agli occhi, mi vien male, sono lì da solo, non penso più a niente, e mi vien male.

Finisce anche la seconda borraccia, tocca andar su senz'acqua. Al quarantacinquesimo tornante ne mancano tre, abbozzo un sorriso, sto andando agli otto, nove all'ora da sempre, adesso ogni pedalata l'accompagno con un dondolìo della schiena, la postura è scompostissima, ma la testa guarda avanti, alla cima, diobono dai che ci siamo.

È al quarantasettesimo tornante che sento delle voci che chiacchierano amabilmente alle mie spalle, ed è al quarantottesimo tornante, l'ultimo, che quelle voci mi sorpassano: sono Bartoli e un suo compagno di squadra che si allenano. Sembra che stiano facendo il cavalcavia di Rolo sulla Modena-Brennero. Li mando a cagare col poco pensiero che mi rimane, sono arrivato, non scendo neanche dalla bici e mi appoggio con una mano al palo del cartello Passo dello Stelvio.

Sto lì fermo per dieci minuti, senza dir niente, senza pensare a niente, guardo solo un po' la neve del ghiacciaio. Intanto sento Bartoli che dice al suo amico Adesso andiam giù dall'altra parte e torniamo su, poi pranziamo. È in quel momento preciso che capisco che forse, io, nella vita, devo fare dell'altro.

Ma vi avevo promesso la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto. È 48.

mercoledì 16 febbraio 2011

Semi-ricordo di un'estate: Loti

A Robert, che sa di cosa parlo

Ti chiamano Loti i tuoi compari: il vecchio nanetto con i baffi e i capelli corti brizzolati lo fa con voce potente, il tuo coetaneo con voce delicata, come ad ammettere la tua superiorità, nella gerarchia.
Siete tutti e tre più bassi di un metro e settanta, avete tutti e tre un fisico asciutto e scattante, l'abbronzatura di chi deve stare in giro tutto il giorno per portare a casa qualcosa. I segni sui vostri volti e i denti dicono un'età, la prontezza nei riflessi un'altra.
Il vecchietto rimane fuori dal cassone dei rifiuti metallici, sta alla base, in una calcolata triangolazione tra il cassone, il camioncino iveco rosso brillante aperto e gli operatori. È lui che intercede con gli operatori, i santi sacerdoti dei rifiuti pubblici di questa città, i difensori dell'inutilizzato contro quei biechi riutillizzatori a sbafo che siete voi. Con tutto se stesso esprime una dissociazione teatrale geniale, una cosa mai vista: mentre la voce e le parole in italiano quasi volutamente stentato sono supplichevoli e lamentose, i gesti del corpo e la mimica facciale si disssociano e mostrano fierezza, volontà, quasi fossimo noi d'impiccio nell'operazione che lui da basso, con fulminei versi in lingua sconosciuta, sta sovrintendendo e coordinando.
Attaccato ai bordi del cassone, arrampicato su una sedia, il tuo coetaneo sfila con destrezza tubi, reti di materasso, piccoli armadietti, chiavi, padelle, grattugie, cilindri, bielle sporche di morcia. È chiaramente l'ultima ruota del carro, alto poco più di voi due, anche belloccio con quei tratti slavi, ma decisamente meno abile nel riconoscere i pezzi buoni e quelli scarsi, non a caso il vecchietto lo tiene sotto stretta sorveglianza e due volte su tre quando parla gli fa lasciare a terra il pezzo come un bambino sorpreso molla le mani dalle merendine, sperando che la velocità del gesto riduca l'impressione nella memoria dell'altro. Quando non è rimproverato dal vecchietto, guarda in alto, verso di te, con evidente ammirazione.
Sei forte Loti, lo si vede. Sei basso, agile e resistente come Yuri Chechi, Loti, anche se probabilmente non conosci questo tuo strano collega: lui volteggia nell'aria per inseguire una sequenza perfetta, tu volteggi per procacciarti il meglio di quello che la vita riesce ad offrirti. Sei sempre nel centro, sospeso, sopra al cassone, che è largo due metri e mezzo, lungo cinque e alto quasi due. Se sbagli un appoggio sei finito. E sei a petto nudo Loti, con scarpe da ginnastica senza calze e jeans corti a mezza gamba. Dubito che l'antitetanica ti abbia raggiunto come raggiunge e punge tutti i bimbi che vanno a scuola regolari. Ma tu danzi e volteggi intorno a lamiere ondulate, sfiori aste e pertiche arroventate, eviti paurose barre di acciao che servono per armare il cemento - quanti cattivi nei film d'azione ho visto morire cadendoci sopra e rimanerci infilzati - Eccolo, il nostro zingaresco San Sebastiano, una mossa sbagliata e fine: l'operatore perde il lavoro, i tuoi compagni l'artista del gruppo e la tua famiglia il pane. Tutto per tre euro al chilo da un ricettatore che tutta la città conosce.
Ma tu sei perfetto Loti, preciso e plastico: come in uno shanghai gigante, sai dove scivolare e fare leva per prendere i pezzi migliori e a volte, fortuna delle fortune, portare a casa dei componenti di rame e metallo che qualche sbadato non ha pensato a separare. Rame, quasi non ci credi, vero? l'oro dei poveri lo chiamano, in questa era digitale è salito moltissimo di prezzo, e anche tu, Loti, ora possiedi un po' di questo oro del terzo millennio. Chissà se lo rivenderai o se ne farai un braccialetto per la tua signora. Già, perché sei sposato, così mi dici e quando, uscito con facili balzi e rientrato nel camion impolverato, ti prepari a salutarci, come un circense saluta il pubblico, mi dici che le benedizioni di tua moglie e dei tuoi tre figli mi accompagneranno per la giornata.
Allora io, sorridendo appena al pensiero che le loro preghiere siano migliori di quelle di mia madre e delle nonne, salutandovi mentre sgasate verso la prossima tappa, smetterò i panni dello spettatore incantato e rivestirò il ruolo di San Pietro di questa isola, colui che decide chi entra e chi esce da questo paradiso di rifiuti.

lunedì 14 febbraio 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Speciale pasta di San Valentino

Fate in modo di rientrare in casa a due orari leggermente diversi. Chi arriva prima faccia dei maccheroni in bianco, con olio o burro, a vostra scelta, e del parmigiano. Fate i piatti e in quello del ritardatario metteteci un altro piatto fondo rovesciato per tenerlo in caldo.

C'est l'amour, come si dice, mica balle.

domenica 13 febbraio 2011

Marco Manicardi, Op.2 (Satisfaction)

Marco Manicardi, Op.2 per sovrapposizioni (Satisfaction)

Testi e musiche : Mich Jagger/Keith Richards
Esecuzione: Britney Spears, Michelle Simonal, Cássia Eller, Devo, Dj Trackmaster, Jimmy Smith, Frankie Ruiz, Ilona Staller, New Trolls, Otis Redding, Tom Jones, Cat Power
Composizione e montaggio: Marco Manicardi
Ideazione: Marco Manicardi, Klaus Aughentaler
Contributi: Klaus Aughentaler, grushenka, GianlucaDM

[mp3] Marco Manicardi, Op.2, Satisfaction

sabato 12 febbraio 2011

Dialettica (intermezzo ragionato)

(dialogo tra genti dell'internet sulla visione norista del dialetto - cfr. Dialettica (7) - e su altre questioni non meno importanti)

Many: Nel museo ci metterei anche una faina, con scritto sotto bèndla, faina, fùrub c'me na bèndla (in modenese, furbo come una faina, ché la faina era una terribile piaga per i contadini, e non si fa mai prendere). E poi un setaccio, con scritto sotto sdàs, setaccio, fùrub c'me un sdàs (in modenese, furbo come un setaccio, che però è usato in modo ironico, perché il setaccio lascia passare la roba fina e tiene solo il grosso). Brutto come la fame, invece, forse si dice un po' dappertutto. Poi sarebbe difficile da esporre, la fame.

bloggo: Comunque i balabiot li hanno inventati a Locarno, stavano in una villa sul Monte Verità, i teosofi, e ballavano nudi. Saputa questa cosa, le zitelle locarnesi non ci potevano credere. Scandalo in città. Devo dire che in questo pezzo del libro [di Paolo Nori, cfr. Dialettica (7), ndr] mi aspettavo inserisse anche la vicenda dell'eppi berdei alla pizzeria due lune in via battindarno. Quando poi ho capito che non c'era ho pensato allo zio [Bonino, ndr] che diceva Questo pezzo lo tagliamo (maledetto).

MrPotts: Da un lato il like [a Dialettica (7) su FriendFeed, ndr] è per un bel pezzo di prosa; dall'altro, molto semplicisticamente e stupidamente, ammetto che vorrei "dis-likare" l'apologia del dialetto; infine, in quel "non so, sull'iPhone dice da 204 a 209" c'è secondo me una questione molto interessante sul testo al tempo dei nuovi reader, ecc.

elisabetta: Sull'iPad iBooks è p. 101, Bluefire Reader p. 59.

bloggo: MrPotts, più in generale Nori non fa un'apologia del dialetto, ne evidenzia i punti forti, e la stessa cosa la fa con l'italiano (vedi vicenda della ragazza ucraina e la frase che conclude tutto che è forse la frase più bella di tutto il libro: l'italiano è come il cielo ci tiene tutti sotto quelli che lo parlano bene quelli che parlano male o poco ecc... e parlare male dell'italiano è come sputare in cielo, ti casca in testa. Si capisce meglio qui. E qui.

Zio Bonino: No il pezzo dell'eppi bërdei non c'era. I Malpensanti.

MrPotts: Sì, bloggo, io sbaglio (oggi ascolto gli interventi che mi suggerisci) (poi, figuriamoci, Noventa..., ma non soltanto i poeti). Mi è solo scappato (semplicistico e stupido) (e si non dovrebbe) un fiato di insofferenza, del tutto fuori bersaglio.

francesco: a me, questa cosa qui, a proposito di dialetto, è sempre piaciuta molto.

venerdì 11 febbraio 2011

Dialettica (7)

Su Fiori e Leddi che cantano Loi ci sarebbero un sacco di cose da dire, cantano in milanese, e prima c’è la traduzione italiana, solo che la traduzione italiana è difficile, che arrivi al dialetto, per esempio Balabiot, dice Fiori, come fai a tradurlo, vuol dire uno che balla nudo, si può tradurre con Innocente, ma vuoi mettere Innocente con Balabiot.
Non c’è niente da fare, il dialetto, o la lingua, ha un’espressività, anche il parmigiano, per dire, per significare che qualcosa è asciutto, o che uno è dimagrito molto si dice l’è sut c’me na bresca, è asciutto come una caccola, per dire che qualcosa puzza si dice al spusa c’me n’endes, puzza come un indice, che gli indici erano le uova che mettevano nei pollai per indicare alle galline il posto dove fare le uova, e dopo un po’ marcivano, e puzzavano allora, per dire che uno è alto si dice l’e alt come na picca, è alto come una picca, per dire che una cosa costa molto si dice l’e car c’me al chiné, è caro come il chinino, per dire che una cosa non serve a niente si dice l’è gram cme al smoj, è gramo come lo smoglio, e al smoj, lo smoglio, che poi questa parola smoglio probabilmente in realtà non esiste, al smoj era l’acqua che restava dopo aver fatto il bucato con la cenere, che non serviva a niente, era da buttar via, gram c’me al smoj. Non so, per dire che una cosa è lacera, e vecchia e povera, a Parma si dice l’e trid c’me l’Albania, è trito come l’Albania, e han cominciato a dirlo probabilmente quelli che avevano fatto la guerra e eran tornati dall’Albania e, l’Emilia, all’epoca, nella prima metà del novecento, era un posto povero, ma l’Albania.
Allora, non lo so, l’espressività che c’è in questi termini dialettali, anche se uno non sa esattamente cosa vogliono dire, io per esempio per tutta la vita sut c’me na bresca l’ho detto senza sapere che la bresca era la caccola, l’ho scoperto venti minuti fa, l’ho chiesto a Gea, c’è un’espressività, in queste parole qua, che trovarla in italiano è difficile, mi viene da dire.
E mi vien da pensare che sarebbe bello far dei musei linguistici, esporre una caccola e sotto metterci scritto: caccola, bresca, sut c’me na bresca. Esporre una picca, che anche quella non so di preciso cos’è, immagino che sia una specie di alabarda che usavano le guardie di Maria Luigia duchessa di Parma, e sotto scriverci pica, alabarda, alt c’me na pica. Esporre una cartina dell’Albania e sotto scriverci Albania, Albania, trid c’me l’Albania, e questa cosa si potrebbe fare in tutti i posti d’Italia, e anche a Milano, esporre uno nudo che balla e sotto scriverci balabiot, innocente, delle cose così.

(Paolo Nori, La matematica è scolpita nel granito, Sugaman, 2011; le pagine, non so, sull'iPhone dice da 204 a 209)

giovedì 10 febbraio 2011

Son fatto così (6)

Son fatto che se c'è un grande che tratta un figlio o un comunque un bambino come un idiota, tipo che, va bene il tato e la tata, va bene cucù e bù e le scorregge fatte colla bocca sul pancino, ma non puoi mica cambiare i nomi alle cose, col cane che diventa baubau, l'automobile che diventa brumbrum, il gatto miaomiao, la mucca mùmù, ché ti vien da pensare che poi quei figli o comunque quei bambini lì, che, a meno di patologie, nascono non idioti, diventano poi degli idioti per colpa dei grandi, o ci mettono più tempo a svegliarsi, se son fortunati a svegliarsi, e se c'è un grande che tratta un figlio o comunque un bambino come un idiota, davanti a me, mentre, per esempio, porto in giro il cane e sento il grande che dice al piccolo Guarda che bel baubau, fai ciao al baubau, ecco, io mi girano i maroni e rispondo malissimo in un colpo solo a tutti e due, al grande per rimproverarlo, al piccolo per educarlo. No baubau: CANE, rispondo. Son fatto così.

mercoledì 9 febbraio 2011

Felice

Prima ho letto un passo del nuovo libro di Paolo Nori che si chiama La matematica è scolpita nel granito, era un passo che mi ha fatto pensare, diceva circa così:
"Ho ripensato poi all’idea che ti avevo accennato, una raccolta di racconti di scrittori emiliani. Il titolo, Allegri e disperati, significa nella mia testa un ragionamento che è cominciato da una frase di Gogol’. Nella mia testa c’è questa frase di Gogol’ che gira e dice più o meno Non avete provato anche voi quella sensazione di quando finisce la festa, che vi sembra che vi si stacchi la pelle di dosso? Questa sensazione di cui parla Gogol’, che la pelle ti si stacca di dosso dopo la festa, è secondo me tipica della nostra terra, dove il carattere gioviale della gente convive con una discrezione che impedisce di manifestare in pubblico i propri sentimenti e i propri affetti. Allora il momento della disperazione è un momento solitario. Non ci sono, da noi, e non potrebbero esserci, scrivevo, quelle donne che in Sicilia sono pagate per piangere ai funerali. Noi affrontiamo il mondo come se fossimo tutti d’un pezzo, con una dignità e una coerenza che ci hanno insegnato che vanno bene. E quando crolliamo, che crolliamo, crolliamo da soli, dentro le stanze. E uno che viene da fuori non lo direbbe mai, a vederci che teniamo su una compagnia di trenta persone e beviamo lambrusco e diciamo cazzate, non lo direbbe mai che diamo i pugni al muro, quando torniamo a casa."
E allora mi è venuto in mente che noi emiliani, quando andiamo ai funerali, a parte la prima fila dei parenti strettissimi, tipo la moglie e i figli se muore il marito, o i genitori se muore un figlio, a parte la prima fila non piange mai nessuno. E i funerali, da noi emiliani, son pieni di gente che ride, che si racconta le cose e soprattutto si racconta delle cose divertenti mentre si va insieme al cimitero dietro a una cassa da morto, anche se poi lo sai che son tutti lì che stanno abbastanza male, chi più chi meno, ma tutti almeno un pochino, per quello che è morto. E davvero dev'essere proprio così, come dice Nori, che uno che viene da fuori non lo direbbe mai, a vederci, non lo direbbe mai che diamo i pugni al muro, quando torniamo a casa.

Questa cosa si nota ancor di più quando l'ordine naturale del nostro cervello viene sconvolto. Per esempio, conosco un vecchio che si chiama Felice, che gira sempre avanti e indietro per la via dove abito adesso, gli son venuti due ictus e lui, dopo i due ictus, ha perso l'uso della parola. Si vede che il suo cervello, però, si è incantato sull'unica cosa che il cervello di un emiliano tratta come una funzione primaria e involontaria, primordiale, come respirare, battere le ciglia e far battere il cuore, e questa cosa sono le bestemmie.

E se lo incontri, Felice, mentre gira avanti e indietro per la via dove abito adesso, lui ti sorride e ti fa ciao con la mano. Allora rispondi e gli dici Ciao Felice, come andiamo oggi? Lui sorride ancora, fa su e giù con la testa e fa dei gesti come a dire Ma bene, dai, oggi non c'è male. E invece ti dice Diocane.

martedì 8 febbraio 2011

Schegge di Liberazione: archeologia domestica

Ieri sera dai miei abbiamo tirato fuori l’archivio della famiglia Fiorveluti, con lettere e atti notarili, compravendite, lettere dal fronte, fin dal 1843. Saresti impazzito. Ho scoperto che un mio bisnonno, ai suoi due figli, la divisa del balilla non l’aveva mica comprata perché “era un anarchico e ogni volta che c’era una manifestazione fascista, prima di farla, arrivava la celere e lo sbatteva dentro, per sicurezza. Oppure ci venivano a parlare e si mettevano d’accordo, che lui mica si sapeva come avrebbe reagito". Poi ho trovato l’atto notarile che dava in affitto TUTTO IL MIO QUARTIERE per 10 anni, dal 1905 al 1915, a mio bisnonno. All’epoca era solo UN CAMPO INCOLTO. Lui lo affittò AD USO AGRICOLO. Ripeto, saresti impazzito. Se vuoi ti passo tutto, da leggere. E poi ho trovato il decalogo del bravo balilla, di mio nonno a scuola. Il punto 8 era, TESTUALE: “MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE”. Bon. Ripeto, se vuoi te lo presto. Quando ho detto a mia madre che sei appassionato di queste cose e le ho raccontato di Barabba e di Schegge ha detto “Ma prendilo, che glielo dai e se lo legge”.

(da una mail di Tiziano Fiorveluti)

Vi ricordiamo che avete poco più di un mese di tempo per mandare un racconto, un ragionamento, una foto, un disegno o quello che vi pare all'indirizzo marcomncrd chiocciola gmail punto com, ché facciamo lo Schegge di Liberazione di carta cartacea. Inviate entro e non oltre il 15 marzo. Orsù, Barabba dice 26x1.

lunedì 7 febbraio 2011

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Halftime pasta

Consultate la guida tv di un canale sportivo tematico. Sceglietene uno da guardare avidamente, con amici. Fossi in voi sceglierei uno sport di cui non conoscete bene le regole, tipo l’hockey su prato, la pallamano, il baseball, il salto con gli sci, il keirin... robe del genere. Se proprio non siete avventurosi, andrà bene anche il calcio.

Mentre pensate a queste cose, dovete essere dentro a un supermarket. In questo modo comprerete una confezione di panna fresca da cucina (Fiorveluti infatti NON CONCEPISCE LA PANNA PRONTA. Mi dispiace. Se volete fare questa ricetta con la panna pronta, sappiate che vi odio). Avete preso la panna fresca da cucina? Ok. Ora comprate della pasta. Io propenderei per le RUOTE, ma fate voi. Comprate anche due bustine di zafferano. Prendete della frutta secca, scegliete a vostro gusto, da sgranocchiare durante la partita con le immancabili birre. Io sceglierei: anacardi e pistacchi in grande quantità e poi noci e arachidi.

Alla fine del primo tempo, o a metà partita, dipende dallo sport, velocissimamente:

Mettete la panna in una padella e cuocetela fino a quando è poco liquida ma molto densa. Mescolate con un cucchiaio di legno. Nel frattempo sminuzzate in un frullatore tutta la frutta secca. Mettete su l’acqua per la pasta. Buttate la pasta. Tostate in padella, senza aggiungere niente, la frutta secca sminuzzata. Fatelo all’ultimo, così quando mescolerete pasta e panna unite anche frutta secca e zafferano. Mescolate bene, aggiustate di sale se necessario.

Buon secondo tempo.

sabato 5 febbraio 2011

Poesia d'amore carpigiana

Da cal dè, corp ed 'na lòuna,
c'a' i ho avù la sorta e la furtòuna
d'incuntrèret, et 'n'al cherdrè,
quand a'n't' vèdd me a sòun disprè:
quand a't' vèdd e a't' sòun darèint
tùtti agli òri em sèmbren mumèint.

Ma an sèmm mai da per nuèter:
tùtt 'st'andèr avanti e indré,
'ste balèr ed quèst e ed stèter,
e sburlòun, e pistèr 'd pé...
pròia mai catèr al drìtt
ed dir quell ch'an t'ho mai dìtt?

Ch'a se squàia i me magòun,
che t'me fàtt dvintèr più bòun,
e che insòma, dio scalabrèin,
me a te at vòi propri bèin?

An dìrem gninta, lasa stèr:
vagabònd seinsa sustansa
a'n'ho mai avù speransa
te m'la fàggh anch sol nasèr.

(Da quel dì, corpo di una luna, / che ho avuto la sorte e la fortuna / d'incontrarti, non lo crederai, / ma quando non ti vedo sono disperato: / quando ti vedo e ti sono vicino / tutte le ore mi sembrano istanti. // Ma non siamo mai soli: / tutto questo andare avanti e indietro, / questo ballare di questi e di quest'altro, / e spintoni e pestar di piedi... / potrò mai trovare il destro / di dirti ciò che non t'ho mai detto? // Che si scioglie il mio magone, / che mi hai fatto diventare più buono, / e che, insomma, dio scalabrino, / io ti voglio proprio bene? // Non dirmi niente, lascia stare: / vagabondo senza sostanza / non ho mai avuto speranza / che tu me la faccia anche solo annusare.)

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Autore carpigiano ignoto, tramandata dal nonno di mio padre Valentino Imbeni. Si sospetta che l'autore sia lo stesso Valentino, noto come il bandito Mastrilli della banda Adani e Caprari. "Troppe volte - scrive il babbo - me la recitò con occhi brillanti fino a farmela imprimere nella mente".

Le scelte di Barabba: G.I.U.D.A @ Spazio Meme

Oggi, sabato 5 febbraio 2011, alle ore diciannove, minuto più minuto meno, vari barabbisti si troveranno qui per la presentazione di G.I.U.D.A. (di seguito un breve messaggio cultural-promozionale):

G.I.U.D.A. è il Geographical Institute of Unconventional Drawing Arts (traduzione per i non anglofili?) ed è composto da illustratori e disegnatori di tutt'Europa.

G.I.U.D.A. è anche una rivista, una rivista d'avanguardia grafica che si rivolge indietro per superare il presente.

Le tavole che trovate qui esposte allo Spazio MeMe, rappresentative di questo gruppo di artisti con una spiccata predilezione per il decadentismo, le passeggiate tra i cimiteri monumentali e il detournament dei linguaggi contemporanei in chiave retrò, si riferiscono al secondo numero della rivista, incentrato sulle vite, le ossessioni, le passioni politiche ed amorose della Confraternità dei Preraffaeliti, un curioso e precursore esempio di corrente avanguardista, che nel 1848 a Londra, ancora prima degli Impressionisti francesi, si ribellava alle istituzioni accademiche dell'arte e della cultura dell'epoca.

Non è un caso quindi che gli illustratori di G.I.U.D.A. decidano di riappropriarsi e di reinterpretare le opere di questi artisti inglesi: come in un vorticoso gioco di specchi i nostri contemporanei evocano e lasciano parlare il passato, raffigurandolo in piccole immagini, icone votive e ritratti dettagliati, come già allora i Preraffaeliti avevano cercato di rievocare la purezza della pittura italiana del '400, sperando anch'essi in una risposta comprensibile ma perfettamente consapevoli dell'incomunicabilità tra vivi e morti, un ponte spezzato e rimosso dall'uomo moderno.

Questi volti in un marcato bianco e nero, questa galleria di visi ed apparenze spettrali testimoniano (forse) il costante meccanismo di autocannibalismo che l'Arte e forse il genere umano stesso compiono ogniqualvolta l'ignoto e la decandenza li attendono sulla soglia.

In un paese senza memoria le visioni oniriche del gruppo di G.I.U.D.A. sembrano una grottesca seduta spiritica di oracoli muti di fronte a un presente in putrefazione, la rappresentazione di un impossibile dialogo tra i morti-morti e i morti in vita.


Buona Visione

venerdì 4 febbraio 2011

Per chi cantano (in coro) le mondine

Ieri sera ero alla Palazzina Liberty di Piazza Marinai d’Italia a Milano perché c’era Paolo Nori che leggeva pezzi da Disastri di Daniil Charms (Marcos y Marcos), accompagnato dal Coro delle Mondine di Novi. Io non sono mai stata a Novi di Modena, un giorno mi ci faccio portare, ho deciso.

Quando sono arrivata sentivo le prove, perché alla Palazzina Liberty si può entrare da due porte che stanno ai lati del palazzo, le entri dai fianchi insomma, si passa accanto alle finestrelle del seminterrato, aperte, e ieri sera sentivo le Mondine fare i vocalizzi.
La maggior parte di loro ha i capelli corti, alcune hanno una sciarpa al collo, altre una spilla, alcune gli occhiali, alcune i capelli bianchi, altre la messa in piega fatta e io noto sempre quando una signora si fa la messa in piega, specie se ha i capelli bianchi, perché mi viene in mente quando mia nonna avvisa tutta la famiglia di non telefonare al pomeriggio del sabato dalle cinque alle sei perché lei è dalla parrucchiera e non può rispondere e le dispiace non rispondere al telefono: è maleducazione.

Soprattutto: alcune di loro hanno una medaglia attaccata al petto e all’inizio non la noto mica: sono miope, sono giovane da meno tempo di loro, non ho gli occhiali.

Sarà un discorso sull’anarchia, dice Paolo Nori, sembra che all’inizio siano un sacco di cretinate, ma poi no, portate pazienza. Noi abbiamo portato pazienza, alla fine abbiamo capito, non tutto ma quasi tutto, ché per capire tutto, bisogna un attimo fermarsi a pensare, con calma, senza frenesia di capire e di uscire più intelligenti di prima. Sempre Paolo Nori poi ci chiede anche se per favore possiamo non applaudire dopo ogni pezzo, vediamo come viene il tutto, dice, e noi no, non applaudiamo mai, ridiamo ma non applaudiamo mai, tranne un tizio che dopo la prima canzone applaude e Paolo Nori gli fa un’occhiata brutta, gliela fa proprio, io non avevo mai visto Paolo Nori fare un’occhiata brutta, poi lui ha gli occhi chiari, non ci crede nessuno che fa un’occhiata brutta, e invece gliela fa e non so bene che pensa, una cosa simile a “ma diobono, l’ho appena finto di dire, anche te.” Però non lo so, non sono sicura.

Ogni tanto, ieri sera, non ho capito.

Fanno l’inchino e si prendono gli applausi. Tanti. Ché a non potergliene fare durante il reading poi ti viene voglia di farne di più dopo, raggrupparli e farli più vigorosi, non sopra le righe, non ci alza in piedi, non si urla brave, proprio le mani quasi quasi te le senti come se fossero più forti perché hanno lavorato - e invece hanno solo ascoltato, su una sedia scomoda, ma si rubano lo stesso le mosse e il vigore.
Mentre tutti iniziavano ad andare via, mi sono avvicinata alla Mondina più bassa e con i capelli più bianchi e la messa in piega fatta, aveva un vassoio di parmigiano in mano ma non ci sono andata per quello, è che sorrideva ed era bassa e le ho detto: “Salve mi chiamo Elena, vi porto i saluti di Marco, il nipote di Corrado, il figlio di Iules” e lei ha alzato entrambi i sopraccigli e ha spanato gli occhi che io mi vedevo già su una sedia tutta notte a sentire le storie di Corrado e Iules e invece no, mi ha detto una roba che non ho capito, forse in novese m’ha detto poi Marco, e mi ha infilato un pezzo di parmigiano in bocca. Come mia nonna il panettone dopo il parrucchiere al sabato pomeriggio.

Ve l’ho detto: ogni tanto, ieri sera, non ho capito.

Ho mangiato il parmigiano, dopo Bella ciao della Mondina che diventa Bella ciao del Partigiano: a questo punto si canta rivolti al pubblico, anche le sei che finiscono il semicerchio ai due lati del semicerchio, quelle sei lì, aprono il semicerchio e ce la cantano in faccia Bella ciao della Mondina che diventa Bella ciao del Partigiano e qualcuno si muove sulla sedia, qualcuno batte le mani con loro, in due-tre punti e succede quella cosa che succede sempre, per la mia esperienza, quando Bella ciao non la cantano al Concerto del Primo Maggio, ma in qualunque posto Partigiani veri o le Mondine, appunto: si sta zitti. Tutti. Fermi. Muti. Non si battono le mani la prima volta, magari poi, se ti incitano, se loro stessi ti danno il permesso con un gesto delle mani o della testa. E se stai zitto, puoi farlo per due motivi: commozione o rispetto. E infatti loro te la cantano in faccia per questo, per vedere se ci riconosciamo, se ci possiamo guardare in faccia liberamente, se adesso che finisce tutto pensiamo in coro a quella domanda difficile di diversi minuti prima, che si è impiantata lì e non vede il verso di uscire, diceva più o meno: è peggio morire ammazzati in un Paese con una dittatura o morire sulla sedia elettrica in un Paese con la democrazia?

Allora mentre mi mettevo a letto ieri sera mi son detta che non lo so e non so rispondere, però ci penserò ogni tanto, me lo sono segnato apposta e poi mi sono detta pure che le Mondine cantano un po’ perché sono orgogliose di essere le figlie e le nipoti delle prime Mondine e può sembrare quasi una tradizione, poi abitudine a cui non si pensa più, alla lunga, e invece no. È che è la loro Bandiera, hanno detto, l’orgoglio di una Bandiera umile e sentita, che non riescono a lasciar sventolare da sola, una Bandiera che spunta dal petto accanto alla medaglia e quasi se ne prende cura, senza urlare e con rispetto.
A me è venuto proprio da pensarlo con la b maiuscola, Bandiera, ed è stata la prima volta.

giovedì 3 febbraio 2011

Ci vuole del coraggio

Mio nonno, Corrado, eran già dei mesi che stava in prigione, ma ultimamente se la passava meglio. Meglio di qualche mese prima, quando c’era quell’aguzzino fascista a comandare la galera, un tipo sadico e cattivo che ammazzava i prigionieri a suon di botte, uno al giorno, tutti i giorni.

Mio nonno, Corrado, quando è arrivato in prigione, l’han chiamato subito nel piazzale insieme con tutti gli altri carcerati. Li hanno messi in fila, e uno sì e uno no venivano marchiati con una spennellata di vernice nera sul petto. Poi il capo fascista ha detto Quelli senza spennellata facciano un passo avanti. Ma mio nonno, che la spennellata ce l’aveva, è rimasto fermo lì dov’era. Quelli senza spennellata, invece, li han messi contro a un muro e li hanno fucilati, così, al volo, per dimezzare i letti occupati in galera in un colpo solo. Con voialtri, aveva detto poi il fascista, con voialtri cominciamo da domani, uno alla volta. E così han fatto, dal giorno dopo. Ogni giorno ne moriva uno di botte. Mio nonno racconta che ha visto i suoi due compagni di cella morire, prima uno poi l’altro, massacrati dalla testa ai piedi, e il terzo giorno toccava a lui.

Il terzo giorno, la mattina presto, nella cella di Corrado, mio nonno, che aveva diciotto o diciannove anni, è arrivato il prete e gli ha dato l’estrema unzione. Poi sono arrivati tre fascisti e han cominciato a picchiarlo. Pim pum pam, in faccia, pim pum pam, nelle gambe, pim pum pam, nella pancia, pim pum pam, sulle braccia, pim pum pam, calci nei reni, pim pum pam, pim pum pam. Mio nonno dice che era lì che si lasciava picchiare, e a un certo punto non sentiva più niente, sperava solo di morire alla svelta. E invece.

E invece non è mica morto, perché proprio in quel momento lì, mentre lo stavano ammazzando, pensa che culo, sono arrivati i partigiani ad attaccare la prigione e i fascisti son corsi fuori coi fucili spianati lasciando mio nonno sanguinante e svenuto sul pavimento.

Tre giorni dopo, quando si è svegliato, era in ospedale. L’attacco dei partigiani era stato respinto, ma qualcosa doveva essere successo, perché adesso, così gli dicevano, adesso il capo fascista era un altro, uno che, dicevano, ma lo dicevano sottovoce, era amico dei partigiani e trattava bene i prigionieri, anche se era comunque un fascista. Mio nonno, Corrado, lì per lì, ha pensato Grazie al cielo anche se era ateo, ed è stato un mese sul letto dell’ospedale, aspettando che le croste nella pancia si cicatrizzassero e i lividi in testa sparissero, e si faceva le sigarette con la carta di giornale, svuotando dei mozziconi trovati per terra che gli portavano le infermiere. Da quella volta dice che non ha mai smesso di fumare perché tanto, per lui, dai diciannove in poi eran tutti anni regalati.

E quindi un mese dopo, uscito dall’ospedale, mio nonno, Corrado, è tornato in prigione, nella cella di prima, quella dove il prete gli aveva dato l’estrema unzione. Solo che era diverso, stavolta, invece di un crostino di pane e una ciotola d’acqua sporca al giorno, il capo fascista gli faceva portare un crostino di pane e mezzo e dell’acqua pulita. E poi la sera, dopo che erano diventati un po’ confidenti, gli chiedeva se non aveva voglia di accompagnarlo fuori a cena, là, nel bordello, nella casa di piacere, e di riportarlo a casa e tornarsene in cella, perché il capo fascista, di lui, di Corrado, si fidava.

E così mio nonno, senza neanche capire il perché, quasi tutte le sere usciva dalla cella, andava in una casa di piacere col capo fascista della prigione, si sedeva su una seggiola e aspettava che il suo carceriere finisse quello che doveva fare. Poi, quando aveva finito, lo riportava a letto, sorreggendolo fino alla prigione perché veniva sempre fuori ubriaco, e dopo, messo a letto il suo carceriere, mio nonno tornava nella sua cella a dormire, chiudendosi la porta dietro le spalle. Stava lì ad aspettare chissà cosa, ma era appena guarito e non sapeva cosa fare, così, nell’immediato, e quindi tornava nella sua cella, ché aveva anche una gran voglia di riposarsi, dopo tutte quelle botte.

Questa cosa qui, quella di mio nonno che tutte le sere portava il fascista a puttane e lo riportava a letto, è durata quasi un mese.

Poi una sera, mentre mio nonno, Corrado, era lì seduto sulla solita sedia con le mani sulle ginocchia a guardarsi intorno nella casa di piacere, ad aspettare che il suo carceriere finisse quello che doveva fare, sono arrivate tre donnine mezze nude, tre puttane, e han cominciato a parlare con lui. Lui, mio nonno, che era timidissimo, almeno con le donne, non sapeva cosa dire. Però notava che i discorsi delle tre donnine si stavano spostando dalle moine sempre più verso il politico.

Sai Corrado, gli han detto a un certo punto, sai che quello che c’era prima a capo della prigione, quello che ammazzava di botte voi prigionieri, ne ha ammazzati venti, in quel modo lì? Eh, lo so bene, rispondeva mio nonno, anche con me c’era quasi riuscito. Sai Corrado, continuavano le tre donnine, sai che adesso sappiamo il nome e il cognome e se vuoi te lo diciamo così puoi vendicarti? Oh, non lo so mica io, rispondeva ancora mio nonno, non capisco e diciamo che non voglio capire. Dai Corrado, han detto quelle facendosi serissime tutto d’un colpo, Corrado, domani sera, tu, quando porti qui quel puttaniere fascista, vieni con noi che andiamo a fare una cosa. Ma non lo so, ha detto mio nonno allarmato, non lo posso mica fare di andare dove mi pare, sono in galera. Sì che puoi, Corrado, gli hanno risposto le donnine, ci pensiamo noi, te non preoccuparti.

Quella notte lì, mio nonno, dopo aver messo a letto il fascista ubriaco come al solito ed essere tornato in cella come al solito, dice che non riusciva a prendere sonno.

La sera dopo, infatti, ha riaccompagnato il suo carceriere nella casa di piacere. Lui, il fascista, gli ha detto Aspettami qui, ed è andato a fare le sue cose. Intanto mio nonno si è seduto sulla seggiola ad aspettare, ma non era mica tranquillo, gli tremavano un po’ le gambe. E poi sono arrivate le tre donnine, le tre puttane della sera prima, l’hanno abbracciato e gli han detto Corrado, vieni con noi, usciamo qui di dietro. E sono usciti, tutti e quattro. Lì dietro c’era un camion di quelli dell’esercito, solo che dentro non c’erano i fascisti, ma dei partigiani vestiti da fascisti. Appena hanno visto mio nonno, in silenzio, gli han dato una divisa fascista e l’han caricato sul camion. Salta su, gli han detto.

Mio nonno è saltato su, e dentro c’era proprio quel sadico del suo aguzzino di una volta, quello che voleva ammazzarlo di botte, legato dalla testa ai piedi e con qualche livido sulla faccia, gli avevano tappato la bocca. Mio nonno, Corrado, dice che ci è rimasto di pietra.

Poi il camion è partito. Nel tragitto erano tutti agitati, ma non è successo niente. Passa il primo posto di blocco e niente, tutto a posto, i documenti erano in regola. Passa il secondo posto di blocco, e tutto a posto anche lì, tutto in regola. Finché, arrivati in mezzo ai campi, i partigiani han preso il fascista, l’hanno slegato e gli hanno dato una pala.

Scava, gli hanno gridato. E lui, il fascista, s’è messo a scavare. E intanto piangeva.

Finito il buco, l’hanno messo in ginocchio. Corrado, han detto i partigiani a mio nonno mettendogli in mano una pistola, Corrado, adesso pensaci tu, vendicati.

Mio nonno racconta che ha preso in mano la pistola, l’ha guardata, è rimasto lì cinque minuti in silenzio e il cuore gli stava venendo fuori dalla bocca. Ha fatto un respiro e ha guardato il fascista in ginocchio che piangeva e tirava su col naso. Non sapeva cosa fare.

No, non me la sento, ha detto coi partigiani, davvero, non ci riesco.

Loro, senza perder tempo, gli han detto Va bene, Corrado, allora vai via e torna a casa a nasconderti, subito.

E mio nonno, Corrado, ha tirato un altro respiro, si è cambiato i vestiti e si è incamminato al buio in mezzo ai campi, piano piano, un tumulto in testa e le gambe che tremavano, si è acceso una sigaretta fatta con la carta di giornale che aveva trovato in tasca. Da lontano ha sentito una schioppettata, poi tutto è ritornato in silenzio.

***

Sai Marco, mi ha sempre raccontato, perché coi nonni funziona così, quando invecchiano, succede sempre che ti raccontano la stessa storia una decina di volte e tutte le volte è come se fossero lì a raccontarti quella storia per la prima volta, secondo loro. Sai Marco, mi dice sempre, ci vuole del coraggio a sparare a una persona, e io, quella volta lì, il coraggio non ce l’ho avuto.

Io lo ascolto sempre come se fosse la prima volta che me lo racconta. E non gliel’ho mai detto, a mio nonno, ma quando penso al coraggio, la prima immagine che mi viene in mente è la sua, è mio nonno, Corrado, con le mani in tasca, una notte di tanti anni fa, da solo, coi pensieri in testa come un tumulto, la tremarella nelle gambe e una sigaretta fatta con la carta di giornale in bocca. Il coraggio, per me, è mio nonno, Corrado, che cammina per tornare a casa. Perché delle volte ci vuole del coraggio, penso, ci vuole del coraggio anche a non averne, del coraggio.

mercoledì 2 febbraio 2011

Dialettica (6)

Rosso in russo si dice krasnaja, ma non significa solo quello, vuol dire anche bello, e quando ti chiedi, in Russia, con che colore associare il tuo partito, se sei sveglio la scelta è facile e l'associazione linguistica e poi mentale gioca a tuo favore (qualcuno il giochetto, un po' diverso, l'aveva fatto qui da noi con l'invocazione alla squadra di calcio nazionale).
In Italia invece, qui in Emilia, sopratutto nella lingua specifica di mio nonno Vittorino, che nel 1944 aveva dodici anni e sfrecciava eccitato ed impaurito tra gli scontri tra nazifascisti e partigiani, la parola ha tutto un altro significato: lui quando vuole spaventare mia nonna che cerca solo di rimandargli la cirrosi epatica, stringe a se la bottiglia di lambrusco e tuona "Divieto, Verboten! Ross!"
E questo fin da piccolo mi ha aiutato a capire perché per i rossi in Italia è sempre tutto in salita...