martedì 11 gennaio 2011

Della superiorità dell’ingegneria sui ragionamenti di Ivan Fëdorovič Karamazov

Quel che ci preme è ch’io possa, al più presto, dichiararti il mio vero essere, cioè che uomo sono io, in che cosa credo e in che cosa spero […] E perciò ti dichiaro senz’altro che accetto, in tutte lettere, l’esistenza di Dio. Ma ecco, tuttavia, che cosa occorre rilevare: posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono anche ora, geometri e filosofi, e anzi fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più ampiamente, tutto l’universo, sia stato creato secondo la geometria euclidea, e s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla terra, potrebbero anche incontrarsi prima o dopo all’infinito. E così, cuore mio, ho tratto la conclusione che, se nemmeno questo mi riesce intelligibile, come potrei mai innalzarmi al concetto di Dio? Umilmente riconosco che in me non c’è nessuna capacità di risolvere problemi simili: in me c’è una mente euclidea, terrestre, e come potrei pretendere di ragionare su ciò che non è di questo mondo? E anche a te, Alëša, consiglio che a queste cose ti astenga sempre dal pensare, e soprattutto (per quanto tocca Iddio) se esista o non esista. Queste son tutte questioni assolutamente inadatte a un’intelligenza creata con concetto d’uno spazio unicamente tridimensionale. Cosicché, ammetto volentieri Iddio […]
Io sono una cimice, e riconosco con la massima umiltà che non posso intendere un ette delle ragioni per cui il mondo è composto così. Si vede che gli uomini stessi ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro han voluto la libertà e han rapito il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà. Oh, io, con la mia miserabile, terreste intelligenza euclidea, io so, unicamente, che la sofferenza c’è, che colpevoli non esistono, che da una cosa deriva l’altra in linea retta, che tutto scorre via e viene a controbilanciarsi: ma questo, certamente, non è che vaneggiamento euclideo, e so io stesso che è così, e vivere secondo esso è una cosa a cui non posso, io, acconsentire! […] quel che occorre, a me, è una sensazione suprema, altrimenti sarò costretto ad annichilarmi.

(Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte seconda, libro quinto “Pro e contra”, dai capitoli III I fratelli fanno conoscenza e IV Ribellione, ed. Einaudi)

Quando Ivan Fëdorovič tiene questo discorso al fratello Aleksej nella locanda della Capitale, poco prima di esporgli il suo poema mai scritto dal titolo Il grande inquisitore, ha circa ventitre anni. Io ne avevo ancora meno, tra i diciannove e i venti, mi pare, quando dimostravo che due rette parallele, all’infinito, si incontrano senza problemi. Quel punto lì, dove le rette parallele si incontrano all’infinito, si chiama punto improprio. Se vogliamo pensare che Dio sia da quelle parti, cioè all’infinito, è molto verosimile l’ipotesi che si tratti, appunto, coerentemente, di un Dio improprio. Altrimenti è da un’altra parte o, più semplicemente, non è. E per quanto mi riguarda, e nemmeno da oggi, ma da quando avevo diciannove o vent’anni, la questione è archiviata.

2 commenti:

  1. Anonimo12:10 PM

    ...e non hai idea di quante cose vengano archiviate dall'uomo per limiti propri, elevando così, quegli stessi limiti della propria incapacità a comprensioni superiori, a teorema su cui impostare la vita. Ma forse non ho capito nulla di quello che hai voluto dire...

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  2. infatti. Ho archiviato perché il teorema l'ho dimostrato. I limiti ce li ha Ivan Karamazov.

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