martedì 23 novembre 2010

Il più colto fra gli eserciti

Non tutti forse lo sanno, ma i garibaldini di Marsala formavano il più colto fra gli eserciti che la storia militare ricordi. Una buona metà infatti erano addottorati o studenti di medicina, di legge, di “belle lettere”. Finita la spedizione a decine entrarono a costituire la classe dirigente della nuova Italia – generali, ministri, parlamentari, giornalisti: finita la spedizione, molti, e Garibaldi in persona fra i primi, impugnarono la penna e misero sulla carta i ricordi della straordinaria avventura. Cioè dunque, per dirla nella lingua dei critici, sulla spedizione dei Mille noi abbiamo una vasta letteratura di prima mano.
Eppure soltanto adesso, mentre si celebra il centenario dell’Italia unita, quella letteratura esce dallo stretto ambito degli studi specializzati e va al lettore medio: in questo senso possiamo parlare di “scoperta” dei Mille, di Giuseppe Bandi, a cui peraltro già il Croce riconosceva il merito d’essere “fra i libri di memorie garibaldine uno dei più limpidi nel racconto e uno dei più persuasivi nei sentimenti che lo animano”.
Giuseppe Bandi scrisse le sue memorie di antico garibaldino ventisei anni dopo che la spedizione s’era conclusa: già più che cinquantenne, e giornalista di grande merito nella provincia toscana (fu lui, fra l’altro, il fondatore del “Telegrafo” livornese) egli volle riprendere in mano i suoi taccuini di volontario, e provarsi a raccontare quel che vide e sentì, “così come racconterei a’ miei figlioletti, nel cantuccio del focolare, in quelle sere d’inverno, nelle quali si novella patriarcalmente”. Non lo spingevano insomma ambizioni letterarie, ma solo la volontà di dirci il vero, e di aggiungere alla già allora vasta schiera di memorie garibaldine “quakche coserella che non si trova altrove”.
Diremo perciò che I Mille è un libro importante anche per questo: il suo autore ebbe la singolare ventura di trovarsi a fianco di Garibaldi quasi di continuo, da Quarto al Volturno; vide e sentì cose che altri ignorarono, e anche gli storici della spedizione si son rifatti a lui per chiarire aspetti politici e militari sin allora oscuri o persino ignoti: il vero senso della “diversione Zambianchi”, per esempio; o i temi tattici della battaglia di Milazzo; o ancora, il motivo reale dell’improvvisa partenza di Garibaldi per il Golfo degli Aranci, in Sardegna, poco prima dello sbarco sul continente.
Ma questo non è né il solo né il primo motivo che ci indusse ad aprire, confidenti, il nostro libro. I risultati letterari di esso van ben oltre la modestia dell’incipit dianzi citato, e queste pagine oltre che vere son belle. Il fatto è che Giuseppe Bandi, nell’istante in cui prese in mano la penna, seppe ritrovare – e questo a noi importa più di tutto – l’identico scanzonato entusiasmo di quando, lui ufficiale ventiseienne dell’esercito regio, abbandonava all’improvviso l’oziosa vita di guarnigione in Alessandria, per unirsi a Garibaldi. Il generale, che l’aveva conosciuto e apprezzato l’anno prima, lo volle nella sua “famiglia militare” ( nel suo stato maggiore, diremmo noi oggi), quale aiutante di campo.
Un aiutante di campo con gli occhi bene aperti davvero; sì che i fatti e i personaggi della straordinaria avventura ritornano sulla pagina così come seppe vederli questo giovanotto maremmano, ricco di buoni studi ma senza pedanterie, innamorato della buona causa italiana ma senza retorica alcuna, pronto al sorriso ironico, ma non mai al cinismo, anche nel divampare della battaglia, padrone di un toscano schietto e saporoso, ma senza risciacquature in Arno.
Così gli uomini della spedizione ce li ritroviamo davanti, su queste pagine, riportati alla loro reale statura umana. Ecco Nino Bixio, sempre disponibile all’ira e al pentimento: “in camicia e in mutande, stava cincischiando un galletto lesso”. Ecco Giuseppe Sirtori, ascetico e severo, in tuba e palandrana, “che sembra un profeta e conta con gli occhi imbambolati i ‘punti’ delle mosche nel soffitto”. O Giuseppe La Masa, siciliano ardente e retorico: “lo chiamavano il generale Enea”. O Giovanni Pantaleo, “un frate giovane, vispo, e con due occhi pieni di fuoco, che indicavano in lui maggior dose di pepe che non comportasse la fratesca mansuetudine”. E Agostino Depretis, “barbuto e ispido come un orso”.
Parrà irriverente questo modo di presentare “gli uomini sodi” della spedizione? Parranno forse irriverenti i ritrattini dal vero di Garibaldi che si lascia spogliare e mettere a letto, sotto la tenda, “come se si fosse trattato del nostro babbo”; o si lamenta dei dolori artritici; o riceve i parlamentari borbonici sbucciando un’arancia, e ne offre uno spicchio infilzato in punta di coltellino?
Certo, l’oleografia ufficiale esige sempre un Garibaldi a cavallo, con tanto di piedistallo sotto gli zoccolo: ed è questa la ragione per cui sino a oggi la storia dei Mille non è diventata patrimonio di cultura diffusa, popolare. E invece occorre riscoprire l’umanità vera del generale e dei suoi volontari se vogliamo intendere il senso della spedizione dei Mille, se vogliamo risentire il Risorgimento come fatto veramente nostro, italiano.
E converrà aggiungere che proprio sullo sfondo di questa realistica prosa quotidiana può spiccare la poesia autentica e schietta di certe pagine, come quelle che narrano il preludio alla battaglia di Calatafimi: la valletta assolata a mezzogiorno, Garibaldi seduto su di un greppo col sigaro in bocca, a guardare le evoluzioni delle colonne nemiche fuor dal villaggio, il risuonar delle trombe nemiche e , in risposta, la sveglia garibaldina del bergamasco Tironi, e infine le parole del generale: “Adesso pensiamo a dar due buone bastonate a questi signori.”
Noi oggi preferiamo sentirla così, la spedizione di Sicilia: e non a caso chi ha tentato di portarla sugli schermi del cinema, e di farcela vedere senza orpelli retorici, ha scelto per sua guida proprio queste pagine.

(Luciano Bianciardi, prefazione a "I Mille. Da Genova a Capua" di Giuseppe Bandi, Mondadori-Club degli Editori, 1961)
Una volta ero a un convegno su Bianciardi e il Risorgimento, a Grosseto. Nel convegno si diceva, più o meno, che i miti fondativi (o fondanti) dell'Italia sono tre: l'impero romano, il Risorgimento e la Resistenza. Il primo, l'impero romano, è stato ridicolizzato dal fascismo ed è irrecuperabile. Il secondo, il Risorgimento, è stato fatto cadere nel dimenticatoio dal terzo, la Resistenza, e dalla successiva e necessaria ricostruzione della Nazione. Il terzo, appunto, la Resistenza, l'unico mito fondativo (o fondante) ancora in vita, sta subendo un processo analogo al Risorgimento da parte del benessere, delle classi dirigenti e dell'affievolirsi naturale della memoria che tuttavia non riesce a inserirsi ufficialmente nei libri di Storia.

Un amico, ieri sera, si chiedeva e mi chiedeva una cosa, si chiedeva, e mi chiedeva, se noi che giriamo lo stivaletto con le Schegge di Liberazione saremmo capaci di farla davvero, la Resistenza, se fosse il caso. Gli ho risposto che "non lo so" e sono ancora convinto della risposta che gli ho dato. Poi gli ho anche detto che tenere acceso il fuoco è importante, ma saperlo usare davvero, il fuoco, è tutta una un'altra questione e forse lo si socoprirà quando arriveranno i lupi. Ma se ci penso, da discreto conoscitore del Risorgimento per colpa di Bianciardi e di una moglie che su Bianciardi ci ha fatto una tesi, mi vien da dire che noi protointellettuali del web, portatori di un pensiero embrionale e confuso, pensanti ingenui, in qualche modo, e fondamentalmente benestanti, siam più simili ai garibaldini, quelli dei mille, che ai nostri nonni. E non è detto che sia un male.

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("I Mille" del Bandi è un gran bel libro, a casa ho l'edizione del 1961, ma grazie a Stampa Alternativa potete scaricarne una ristampa in pdf, anche se han tolto la prefazione di cui sopra. E ringrazio grushenka, la mia Dulcinea del Toboso, ché le ho mandato un sms dicendole che mi serviva questa prefazione per rispondere a un amico e lei l'ha ricopiata e me l'ha spedita.)

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