martedì 30 novembre 2010

Dialettica (2)

A Viterbo, ma pure a Tuscania, ma anche a Tarquinia, che son tutte medievali e viterbesèrrime, ma poi anche a Civitavecchia, chissà perché, che di medievale e viterbese non c’ha nulla, lo scemo del villaggio, il redneck del deep south méricano, lo sciocchino, il bifolco, lo chiamano goio. Ad esser gojo è l’uovo mezzo fecondato, che di riff o di raff (a Civitavecchia si dice de riffe o de raffe, e pure ottennove per non dire diciassette) non s’è fatto pulcino: e niente, è una bruttura, una ròba deforme, verso la quale si ha ostilità, che s’avverte come nemica. Gli ebrei chiamano i non ebrei, i patrizi, gòi: si potrebbe dire che se l’ebraismo fosse un liquido seminale che feconda gl’uomini come ovuli, i gòi sarebbero gl’ovuli sui quali quel liquido seminale non ha attecchito bene.

(di Fabrizio Gabrielli)

BRANCA BRANCA BRANCA!

La prima volta che ho partecipato a una sommossa microcosmica ero in seconda media, il prof di Italiano, Desiderio, pensa te che bel nome, un prof illuminato, di quelli usciti mica tanto indenni dal sessantotto, che ci faceva lezione in piedi, girando tra i banchi, ci faceva svuotare il centro della classe e ci metteva in cerchio, spiegava le cose tenendo un bastone in mano e noi un giorno gliel’abbiamo anche colorato, il bastone, e gli volevamo bene, a Desiderio, anche se lui poi ha lasciato la scuola media per andare a lavorare nelle carceri, ma comunque, quello che volevo dire è che quando eravamo in seconda media, il prof Desiderio, un giorno, ci ha presi tutti quanti e ci ha portati nell’aula sotterranea col proiettore per farci vedere l’armata Brancaleone.

E noi, tutti, che in classe eravamo in venticinque, dall’armata Brancaleone siamo usciti mica tanto indenni. C’era una cosa che facevamo, in classe, e lo facevamo per disturbare il potere costituito dei professori che non erano Desiderio, perché Desiderio ci pensava da solo a fare il disturbatore del potere costituito dal prof Desiderio, e questa cosa era che uno, a un certo punto, al primo momento di silenzio disponibile durante la lezione, gridava: BRANCA BRANCA BRANCA! E gli altri, in coro, non uno che restasse fuori, gli andavano dietro cantando: LEON LEON LEON! E un altro, e ogni tanto ero io perché lo sapevo fare bene, con due dita in bocca e la lingua arrotolata, faceva un fischio altissimo e fastidiosissimo: FUIIII! E poi ancora tutti insieme, nessuno escluso, cantavamo: BOM! Ogni tanto sbattendo i pugni ognuno sul proprio banco. Un gran fracasso.

Il coro molesto di Brancaleone non è mai piaciuto ai professori che non erano Desiderio. Ci rimproveravano, ci mandavano a turno dal preside, ci davan delle note prendendo come capri espiatori, spesso, il primo, quello che aveva gridato BRANCA BRANCA BRANCA!, e il secondo solista, quello del fischio con le dita in bocca e la lingua arrotolata, che ogni tanto ero io. E ci pensavo ieri sera, mentre ero alla finestra a guardar giù. Avrei voluto farlo ancora, gridare un BRANCA BRANCA BRANCA!, o almeno il fischio, FUIIII!, e invece niente, non l’ho fatto, non come la prima volta che ho partecipato a una sommossa microcosmica in seconda media. Mi sarò rammollito, con l’età.

lunedì 29 novembre 2010

Dialettica

(nuova rubrica aperta a contributi esterni)

Sperem. È una parola in dialetto modenese, ma c'è anche nel reggiano, credo. Ci son due "e" e si può pronunciare sperèm o spèrem. Significa, rispettivamente, a seconda di dove metti l'accento, "speriamo" e "sparami". Bisogna stare sempre molto attenti, quando la si pronuncia.

Gli antieroi: Luis Ramirez Zapata

Nel 1982 al Mundial di Spagna arrivarono 24 squadre a contendersi il campionato del mondo di calcio. Era la prima volta e qualcuno aveva espresso obiezioni in merito al fatto che 16 squadre fossero sufficienti per stabilire chi, nella fase finale, meritasse il trofeo disegnato dall'italiano Cazzaniga. Tra le squadre era presente anche il piccolo stato centro americano di EL Salvador. In quegli anni la guerriglia, nel piccolo stato, era compagna di campo dei giocatori, e le condizioni di vita del paese non erano certo rosee. El Salvador puntava quindi a una vetrina per figurare bene, affidando agli sportivi il ruolo di ambasciatori a tutti gli effetti, come spesso accade. El Salvador aveva partecipato già ai mondiali del 1970, ma era stato sconfitto tre volte e rispedito a casa senza aver segnato nemmeno una rete.

I giocatori del Salvador arrivarono in Spagna dopo un'odissea durata qualche giorno. Voli organizzati male avevano fatto sì che la nazionale facesse scalo in diversi paesi prima di toccare il suolo iberico e, una volta arrivatiesausti ad Alicante, dovettero addirittura farsi prestare il pallone per allenarsi dalla nazionale ungherese che li avrebbe affrontati qualche giorno dopo. Storie d'altri tempi.

Quando fu il turno del primo incontro, l'Ungheria strapazzò la piccola nazionale salvadorena e verso il 60esimo minuto il risultato era già di 5-0. Ma, al ventesimo della ripresa, un veloce scambio tra gli attaccanti portò Luis Ramirez Zapata, soprannominato "El Pelè", davanti al portiere ungherese a segnare il gol della bandiera. Zapata si rese conto che quello era un momento storico per la piccola compagine centramericana. Si trattava pur sempre del primo gol della storia dei mondiali e chissà in quanti nel suo paese avrebbero esultato. Quindi corse per tutto lo stadio gaudente ed esultò come se avesse segnato il gol più importante della storia dei mondiali di calcio.

Gli ungheresi non la presero bene e trattarono El Salvador come un punchball. Alla fine il punteggio fu di 10 a 1, la sconfitta con il maggior numero di reti subite della storia dei mondiali. El Salvador divenne una barzelletta e, nonostante le due sconfitte successive comunque onorevolissime (0-1 contro il Belgio e 0-2 contro l'Argentina campione del mondo in carica), una volta tornati a casa, i 22 giocatori diventarono il simbolo della vergogna di un paese e vennero aspramente criticati (e non c'è bisogno di dirvi come una critica in El Salvador negli anni 80 potesse diventare piuttosto pesante, per usare un eufemismo).

"El Pelè" si ritrovava immerso per sempre dentro un incubo. "Tutti avevano in mente soltanto quel numero 10", disse, "per il mio gol non c'era spazio".

***

Venticinque anni dopo, a San Salvador, i reduci di quella partita di Ungheria ed El Salvador si ritrovarono per giocare la rivincita. Venne chiamata La partita del ricordo. Un grande striscione recitava: "Questa volta ricominciamo da zero a zero". Finì 2-2. C'è bisogno che vi dica chi segnò i due gol per El Salvador?


(Per approfondire: il film UNO : LA HISTORIA DE UN GOL)

venerdì 26 novembre 2010

Biografie essenziali (96)

Non so perché molti credano che Robert Musil fosse un ingegnere, in realtà aveva un sacco di ottime qualità.

Sigarette spente (1)

Ieri, per la pausa pranzo, io e la mia amica Sandra siamo uscite dalla Sala Borsa e siamo andate a mangiarci i nostri panini con la mortadella e l'insalata verde davanti a San Petronio.
Ah, L., ti saluta San Petronio.
E va bene, ritornando al nostro discorso, davanti a San Petronio c’era uno, un ragazzo di colore, magro, alto, carino, in piedi su un banchetto che parlava a un gruppo di persone disposte in cerchio intorno a lui. Quando ha smesso di parlare, sul banchetto è salita una ragazza, anche lei di colore, meno magra, meno alta, carina anche lei tuttavia, che tra le altre cose ha citato Machiavelli. Dopo è salito sul banchetto uno vestito da clown, che parlava troppo piano perché potessi capire tutto quello che diceva.
Ho capito cosa ha detto solo in tre occasioni, in cui ha parlato più forte, e ha detto, nella prima occasione: A pedate nel culo vanno presi questi signori! E nella seconda: Allora io li prenderei tutti a pedate nel culo! E nella terza: A questi qui dobbiamo dargli delle pedate nel culo!
In tutte e tre le occasioni non ho potuto fare a meno di notare che i presenti, a quelle parole, annuivano molto convinti e si scambiavano sguardi che sembravano voler dire Eh, sì, altroché, ha proprio ragione.
Allora, ho guardato la mia amica Sandra e le ho detto che se avessi dovuto fondare un partito, o una qualche lista, in quel frangente lì io lo avrei chiamato sicuramente P.N.C, Pedate Nel Culo.
Sandra ha riso e si stava per strozzare con la mortadella, o forse con l'insalata verde, comunque poi ha bevuto e è sopravvissuta.
Subito dopo dell’uomo vestito da clown è salito sul banchetto un signore sulla cinquantina, con in testa un cappello di lana fucsia, degli occhiali molto grandi e, in generale, un abbigliamento non proprio sobrio. Mentre si apprestava a salire sul banchetto parlava con un gruppo di signori distinti, in giacca e cravatta, che si erano appena aggiunti al consesso.
Una volta salito, questo signore col cappello di lana fucsia ha detto, riferendosi evidentemente ai signori distinti, ma declamando ad altissima voce verso tutti noi: Volete sapere cosa stiamo facendo? Siete arrivati qui e non sapete cosa stiamo facendo? La rivoluzione!, qui la rivoluzione stiamo facendo! Perché bisogna esprimersi nel teatro dell'esistenza, non solo occupare le università o le stazioni. Qui siete nel teatro della vera rivoluzione!
Sandra ha sgranato gli occhi, ha accartocciato la stagnola del panino e ha tirato fuori le sigarette dalla borsetta.
A quel punto io ancora ascoltavo il cappello fucsia, ma poi ho avuto una specie di visione e mi sono immaginata che arrivava mio padre, o meglio, mi sono immaginata che ero lì in piazza Maggiore che passeggiavo con mio padre, e quando vedevamo questo gruppo di persone mio padre mi guardava con un'espressione interrogativa come a dire E questi?
E io, sempre nella mia immaginazione, gli rispondevo Eh, oh, babbo, il mondo è bello perché è vario!
Poi la fantasia è svanita lasciandomi questa frase: Il mondo è bello perché è vario. Il mondo è bello perché è vario. Il mondo è bello perché è vario. Il mondo è bello perché è vario. Il mondo è bello perché è vario.
Ma ne siamo proprio sicuri? Mi sono domandata Ne siamo sicuri Ilke Bab?
No, mi sono risposta, non ne sono sicura. Forse era bello anche se eravamo tutti come me e Sandra.
Poi Sandra ha finito la sua paglia, mi ha fatto cenno di aspettare, ha fatto una chiamata col cellulare e mi ha detto Anche domattina si fa il corteo, poi forse in facoltà si continua l'occupazione.
Bene, le ho detto io, occhio che hai un pezzo di insalata tra i denti.
E via di nuovo a studiare.

mercoledì 24 novembre 2010

Il macchinario reale del karma

Quando studiavo Controlli Automatici, ci avevano insegnato che una funzione reale non si comporta mica come una funzione teorica. Prendiamo, per esempio, una costante. Nel piano cartesiano, per semplicità consideriamo solo il primo quadrante, la costante che abbiam preso è una linea retta che parte attaccata all’asse delle y e va avanti parallela all’asse delle x, e può andare avanti per sempre. Una costante è una funzione che non cambia mai, che è sempre dritta, un po’ come uno vorrebbe che fosse la sua vita, senza particolari felicità ma anche senza dei gran traumi. Ecco, un macchinario che deve replicare un segnale costante non ha niente di dritto. La funzione reale che corrisponde alla costante teorica parte subito con una curva che supera il valore che vogliamo raggiungere, quello della costante che avevamo preso, poi c’è un’altra curva che va sotto, poi un’altra curva che va sopra, ma più vicina alla costante della prima curva, poi ce n’è un’altra che va sotto, e anche questa più vicina alla costante della seconda, poi un’altra sopra, un’altra sotto e così via, finché l’oscillazione è talmente piccola che all’occhio umano la funzione reale sembra una costante, da un certo punto in poi. Bene, la prima curva, quella più alta di tutte che supera la costante teorica che volevamo replicare col macchinario reale, si chiama sovraelongazione.

Quando ho finito di leggere Un karma pesante, il libro di Daria Bignardi, la signora Sofri, la prima cosa che ho pensato è stata che quel libro lì assomigliava a una funzione reale, a un macchinario, dove la costante dritta, perfetta e teorica è la vita immaginata da una persona che vorrebbe nascere, vivere e invecchiare senza che debba succedere per forza qualcosa di particolare, e la narrazione, invece, è il macchinario reale che spiega questa vita teorica, dove non succede davvero granché di particolare, ma non è proprio una cosa dritta che fila via liscia e imperturbabile.

Il primo capitolo è una sovraelongazione narrativa, se mi passate il termine. Inizi a leggere il karma pesante e dici Cavolo, che figata. Perché il primo capitolo, che è anche quello scritto meglio e il meno noioso del libro, ti catapulta a novemila metri d’altezza, su un aereo, dove la protagonista, che si chiama Eugenia, muore. Una cosa che non si era quasi mai sentita.

Il problema della macchina della narrazione, però, è che è incostante. Passa dal presente al passato, facendo su e giù per la vita vera della protagonista, una vita normale e anche un po’ inutile, che se non fosse per quei saliscendi narrativi, dove quando si sale siamo nel presente e quando si scende siamo nel passato di Eugenia, la protagonista, se non fosse per il saliscendi, avremmo chiuso il libro e saremmo andati a fare una passeggiata.

Con l’andare della storia, invece, questo andar su e giù dalla linea della vita normalissima nel passato e nel futuro di Eugenia si fa sempre meno ripido, sempre più vicino alla linea della vita normalissima, finché, alla fine del libro, la macchina narrativa diventa indistinguibile dalla costante, dalla vita immaginata. E così, nel momento preciso in cui le due funzioni diventano indistinguibili, il libro finisce, perché se la signora Sofri avesse continuato a scrivere delle altre cose, avrebbe scritto una storia noiosa e normalissima, avrebbe imbrattato le carte.

Un giorno di qualche settimana fa ho letto il primo capitolo ad alta voce e l’ho messo su internet. Poche ore dopo mi è arrivata una mail del buon Carlo Dulinizo, che il libro non l’aveva mica letto. Diceva, la mail: “Si vocifera che la prima cosa che dicono alla scuola Holden è di mettere la cosa migliore del libro all'inizio, come incipit, per acchiappare il lettore, così poi dicono che è fatta, infatti le chiusure e l'inmezzo di Baricco son sciapi e insignificanti. Forse anche per la Bignardi è così”. Son saltato subito sulla sedia e gli ho risposto che sì, è così. Gli ho detto che questa cosa succede con i macchinari reali che vogliono andar dietro alle funzioni teoriche e gli ho detto che è un fenomeno che si chiama sovraelongazione. Mi ha dato del matto, lui, il buon Carlo. Ma secondo me ha capito.

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(Daria Bignardi, "Un karma pesante", Mondadori 2010, pagg. 224)(update: note a margine e uno spoiler)

martedì 23 novembre 2010

Il più colto fra gli eserciti

Non tutti forse lo sanno, ma i garibaldini di Marsala formavano il più colto fra gli eserciti che la storia militare ricordi. Una buona metà infatti erano addottorati o studenti di medicina, di legge, di “belle lettere”. Finita la spedizione a decine entrarono a costituire la classe dirigente della nuova Italia – generali, ministri, parlamentari, giornalisti: finita la spedizione, molti, e Garibaldi in persona fra i primi, impugnarono la penna e misero sulla carta i ricordi della straordinaria avventura. Cioè dunque, per dirla nella lingua dei critici, sulla spedizione dei Mille noi abbiamo una vasta letteratura di prima mano.
Eppure soltanto adesso, mentre si celebra il centenario dell’Italia unita, quella letteratura esce dallo stretto ambito degli studi specializzati e va al lettore medio: in questo senso possiamo parlare di “scoperta” dei Mille, di Giuseppe Bandi, a cui peraltro già il Croce riconosceva il merito d’essere “fra i libri di memorie garibaldine uno dei più limpidi nel racconto e uno dei più persuasivi nei sentimenti che lo animano”.
Giuseppe Bandi scrisse le sue memorie di antico garibaldino ventisei anni dopo che la spedizione s’era conclusa: già più che cinquantenne, e giornalista di grande merito nella provincia toscana (fu lui, fra l’altro, il fondatore del “Telegrafo” livornese) egli volle riprendere in mano i suoi taccuini di volontario, e provarsi a raccontare quel che vide e sentì, “così come racconterei a’ miei figlioletti, nel cantuccio del focolare, in quelle sere d’inverno, nelle quali si novella patriarcalmente”. Non lo spingevano insomma ambizioni letterarie, ma solo la volontà di dirci il vero, e di aggiungere alla già allora vasta schiera di memorie garibaldine “quakche coserella che non si trova altrove”.
Diremo perciò che I Mille è un libro importante anche per questo: il suo autore ebbe la singolare ventura di trovarsi a fianco di Garibaldi quasi di continuo, da Quarto al Volturno; vide e sentì cose che altri ignorarono, e anche gli storici della spedizione si son rifatti a lui per chiarire aspetti politici e militari sin allora oscuri o persino ignoti: il vero senso della “diversione Zambianchi”, per esempio; o i temi tattici della battaglia di Milazzo; o ancora, il motivo reale dell’improvvisa partenza di Garibaldi per il Golfo degli Aranci, in Sardegna, poco prima dello sbarco sul continente.
Ma questo non è né il solo né il primo motivo che ci indusse ad aprire, confidenti, il nostro libro. I risultati letterari di esso van ben oltre la modestia dell’incipit dianzi citato, e queste pagine oltre che vere son belle. Il fatto è che Giuseppe Bandi, nell’istante in cui prese in mano la penna, seppe ritrovare – e questo a noi importa più di tutto – l’identico scanzonato entusiasmo di quando, lui ufficiale ventiseienne dell’esercito regio, abbandonava all’improvviso l’oziosa vita di guarnigione in Alessandria, per unirsi a Garibaldi. Il generale, che l’aveva conosciuto e apprezzato l’anno prima, lo volle nella sua “famiglia militare” ( nel suo stato maggiore, diremmo noi oggi), quale aiutante di campo.
Un aiutante di campo con gli occhi bene aperti davvero; sì che i fatti e i personaggi della straordinaria avventura ritornano sulla pagina così come seppe vederli questo giovanotto maremmano, ricco di buoni studi ma senza pedanterie, innamorato della buona causa italiana ma senza retorica alcuna, pronto al sorriso ironico, ma non mai al cinismo, anche nel divampare della battaglia, padrone di un toscano schietto e saporoso, ma senza risciacquature in Arno.
Così gli uomini della spedizione ce li ritroviamo davanti, su queste pagine, riportati alla loro reale statura umana. Ecco Nino Bixio, sempre disponibile all’ira e al pentimento: “in camicia e in mutande, stava cincischiando un galletto lesso”. Ecco Giuseppe Sirtori, ascetico e severo, in tuba e palandrana, “che sembra un profeta e conta con gli occhi imbambolati i ‘punti’ delle mosche nel soffitto”. O Giuseppe La Masa, siciliano ardente e retorico: “lo chiamavano il generale Enea”. O Giovanni Pantaleo, “un frate giovane, vispo, e con due occhi pieni di fuoco, che indicavano in lui maggior dose di pepe che non comportasse la fratesca mansuetudine”. E Agostino Depretis, “barbuto e ispido come un orso”.
Parrà irriverente questo modo di presentare “gli uomini sodi” della spedizione? Parranno forse irriverenti i ritrattini dal vero di Garibaldi che si lascia spogliare e mettere a letto, sotto la tenda, “come se si fosse trattato del nostro babbo”; o si lamenta dei dolori artritici; o riceve i parlamentari borbonici sbucciando un’arancia, e ne offre uno spicchio infilzato in punta di coltellino?
Certo, l’oleografia ufficiale esige sempre un Garibaldi a cavallo, con tanto di piedistallo sotto gli zoccolo: ed è questa la ragione per cui sino a oggi la storia dei Mille non è diventata patrimonio di cultura diffusa, popolare. E invece occorre riscoprire l’umanità vera del generale e dei suoi volontari se vogliamo intendere il senso della spedizione dei Mille, se vogliamo risentire il Risorgimento come fatto veramente nostro, italiano.
E converrà aggiungere che proprio sullo sfondo di questa realistica prosa quotidiana può spiccare la poesia autentica e schietta di certe pagine, come quelle che narrano il preludio alla battaglia di Calatafimi: la valletta assolata a mezzogiorno, Garibaldi seduto su di un greppo col sigaro in bocca, a guardare le evoluzioni delle colonne nemiche fuor dal villaggio, il risuonar delle trombe nemiche e , in risposta, la sveglia garibaldina del bergamasco Tironi, e infine le parole del generale: “Adesso pensiamo a dar due buone bastonate a questi signori.”
Noi oggi preferiamo sentirla così, la spedizione di Sicilia: e non a caso chi ha tentato di portarla sugli schermi del cinema, e di farcela vedere senza orpelli retorici, ha scelto per sua guida proprio queste pagine.

(Luciano Bianciardi, prefazione a "I Mille. Da Genova a Capua" di Giuseppe Bandi, Mondadori-Club degli Editori, 1961)
Una volta ero a un convegno su Bianciardi e il Risorgimento, a Grosseto. Nel convegno si diceva, più o meno, che i miti fondativi (o fondanti) dell'Italia sono tre: l'impero romano, il Risorgimento e la Resistenza. Il primo, l'impero romano, è stato ridicolizzato dal fascismo ed è irrecuperabile. Il secondo, il Risorgimento, è stato fatto cadere nel dimenticatoio dal terzo, la Resistenza, e dalla successiva e necessaria ricostruzione della Nazione. Il terzo, appunto, la Resistenza, l'unico mito fondativo (o fondante) ancora in vita, sta subendo un processo analogo al Risorgimento da parte del benessere, delle classi dirigenti e dell'affievolirsi naturale della memoria che tuttavia non riesce a inserirsi ufficialmente nei libri di Storia.

Un amico, ieri sera, si chiedeva e mi chiedeva una cosa, si chiedeva, e mi chiedeva, se noi che giriamo lo stivaletto con le Schegge di Liberazione saremmo capaci di farla davvero, la Resistenza, se fosse il caso. Gli ho risposto che "non lo so" e sono ancora convinto della risposta che gli ho dato. Poi gli ho anche detto che tenere acceso il fuoco è importante, ma saperlo usare davvero, il fuoco, è tutta una un'altra questione e forse lo si socoprirà quando arriveranno i lupi. Ma se ci penso, da discreto conoscitore del Risorgimento per colpa di Bianciardi e di una moglie che su Bianciardi ci ha fatto una tesi, mi vien da dire che noi protointellettuali del web, portatori di un pensiero embrionale e confuso, pensanti ingenui, in qualche modo, e fondamentalmente benestanti, siam più simili ai garibaldini, quelli dei mille, che ai nostri nonni. E non è detto che sia un male.

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("I Mille" del Bandi è un gran bel libro, a casa ho l'edizione del 1961, ma grazie a Stampa Alternativa potete scaricarne una ristampa in pdf, anche se han tolto la prefazione di cui sopra. E ringrazio grushenka, la mia Dulcinea del Toboso, ché le ho mandato un sms dicendole che mi serviva questa prefazione per rispondere a un amico e lei l'ha ricopiata e me l'ha spedita.)

lunedì 22 novembre 2010

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Petto d'anatra per tirarsela

Sparate a un'anatra. Mollate il cane che la vada a prendere...

No, facciamo che la comprate al supermarket. Comprate del petto d'anatra. Prima di andare a letto, togliete la pelle e tagliatelo a fettine. Mettetelo in un sacchetto da frigo chiuso ermeticamente con della birra bianca, dell'alloro e delle bacche di ginepro schiacciate. Cucinerete per la cena di domani.

Siamo già a domani sera? Bene. Tagliate un finocchio alla Giuliana (o alla Julienne, se volete fare i francesi) e mettetelo intorno ai piatti dei commensali come le stanghette dei minuti di un orologio, ma lasciate libero un quarto d'ora. Spargeteci sopra del sale fino e del prezzemolo. Un attimo prima di servire bagnerete con olio di oliva.

Scaldate la piastra. Sbucciate una mela per ogni commensale. Io lo farei con delle granny smith, ma voi fatelo con le mele che avete e andrà bene lo stesso. Dividete a fettine. Scaldate in una padella del burro con sale, pepe nero, un goccio di limone, parecchio curry e abbondante zucchero di canna. Non appena il burro comincia a sciogliersi un po', buttate dentro le mele e fatele andare fino a quando non si sono imbrunite per bene. Poi tiratele fuori e mettetele nel "quarto d'ora mancante" dell'orologio al finocchio.

Intanto la piastra sarà calda, sgocciolate i pezzi di petto d'anatra dalla marinata e sbatteteceli sopra, cuocendo secondo i tempi che vi suggerisce il vostro gusto.

Portate nel mezzo del piatto i petti d'anatra, circondati da finocchi e mele.

Oltre a consentirvi di tirarvela un bel po' per l'accostamento ardito con le mele e per la bella presentazione del piatto, il petto d'anatra è buono. Non rovinate il tutto con della maionese o altre salse volgari, grazie.

venerdì 19 novembre 2010

Come zucchero per le formiche

Le formiche non vogliono vedere animali, a loro non piace. A me non fanno schifo o paura le formiche, dopo ti ci abitui. Le prime volte chiaramente sì, gli occhi lucidi e le antenne e i peli. Adesso no. Ti abitui a tutte le schifezze.
Questa sera, alla Tenda di Modena, che è un locale, appunto, sotto a una tenda, il prode carlo dulinizo, barabbista della prima ora, presenterà e converserà amabilmente con lo scrittore Matteo Martignoni. Parleranno del più e del meno e dell'ultimo libro del secondo, una raccolta di raccontini neri dal titolo Come zucchero per le formiche.

Sul sito del Martignoni è possibile scaricare il libro in pdf. Ma, se volete un consiglio, comprategliene una copia cartacea, perché ogni copia e rilegata a mano su carta pregiata e cucita con ago e filo dall'autore. Costa anche poco.

In fondo a questa pagina, come potete notare, ci sono i nomi di Simone Rossi e Bicio, il chitarrino e il chitarrone che solitamente accompagnano i reading di Schegge di Liberazione e Cronache di una sorte annunciata. Non so se ci saranno, Simone e Bicio, ma a noi basta il loro spirito, la loro benedizione, per sentirci a casa un po' dappertutto. Ci vediamo là.

giovedì 18 novembre 2010

Sigarette spente (intro)

Da qualche mese ho smesso di fumare.
Il guadagno in termini di salute lo vedrò col senno di poi, per il momento ho l'alito più buono e corro meglio.
Il guadagno in termini economici invece, il guadagno in pecore, come direbbe un mio amico, si calcola facile.
Fumavo circa cinque pacchetti di sigarette a settimana, cinque pacchetti da quattro euro ciascuno, quindi per fumare spendevo venti euro a settimana, ottanta al mese. Ora, da sei mesi, ogni mese ho ottanta pecore in più in saccoccia. Cosa ci faccio? Me le spendo in altri modi.

Il primo mese ci ho comprato caramelle senza zucchero, stecche di liquirizia e quattro sedute di massaggi rilassanti/decontratturanti in un centro benessere che faceva una promozione convenientissima. Compensazione.
Il secondo mese mi ci sono finanziata una delle sbornie più clamorose della mia vita, volevo festeggiare di aver perso un brutto vizio e nell'occasione è finita che ho perso anche l'iPhone, lasciato in spiaggia mentre andavo a fare il bagno, all'alba, cantando quella canzone di Silvestri che fa "gettai ogni cosa nel fiume e mi tuffai nell'oblio, scappai da tutto il marciume e dallo sguardo di Dio". Momento francescano.
Il terzo li ho spesi per un registratore vocale che fa direttamente degli mp3, mi serviva per delle interviste e visto che non avevo più un iPhone... registratore vocale, per forza.
Quarto mese, settembre, ho comprato delle scarpe da tennis e mi sono lasciata sedurre dalle gioie del fitness: liberare endorfine, dimagrire, fare fiato per tentare addirittura la mezza maratona di Bologna. Ilke Bab come Gianni Morandi.
Ottobre, quinto mese senza fumo, ho pensato che mi meritavo quel fine settimana a Monaco che rimandavo da anni, così ho preso i biglietti del treno e ho avvisato il mio amico che vive là che finalmente arrivavo. A/R, offerta Trenitalia, ottanta euro spaccati: cinque pacchetti di paglie.
Adesso sono al sesto mese e per questo anniversario di mezzo anno ho iniziato a cantare, una lezione di canto ogni mercoledì. Pagata la maestra, quel poco che avanza delle ottanta pecore lo spendo in castagne e vino novello. L'abbraccio rassicurante della stagionalità.

Adesso che viene il freddo poi, c'è una situazione inedita che mi si presenta con maggiore evidenza, e a cui associo un ulteriore guadagno.
Un guadagno in termini di tempo e solitudine, se così si può dire: quello dovuto alla pausa sigaretta.
Nei locali tra un bicchiere e l'altro, al cinema durante l'intervallo, in biblioteca nelle canoniche tregue dallo studio, ovunque, prima o poi, negli interstizi della giornata del fumatore, arriva la pausa sigaretta. Per me invece, non arriva più.
Allora che posso fare in quei minuti lì, mentre i fumatori fumano?
Posso pensare, ho pensato. Posso provare a pensare a qualcosa, giusto il tempo di una paglia o poco più. Aprirmi in testa delle parentesi cognitive (!) per poi chiuderle, così, dopo averci messo dentro dei pensieri che altro non sono che sigarette spente.
Ecco, questa sarebbe l'idea.
Come a dire: Ho smesso di fumare, ora voglio iniziare a farmi le seghe mentali.

mercoledì 17 novembre 2010

Tutto quello che c'è da sapere

Curriculum vitae:
  • So leggere. Riesco a farmi delle opinioni.
  • So scrivere, con ogni mezzo disponibile.
  • So scrivere abbastanza bene, secondo me, se interessa.
  • So scrivere senza guardare la tastiera.
  • So scrivere senza guardare, volendo.
  • So far di conto.
  • Ho una laurea in ingegneria, del 2004. Ho preso 107, se conta qualcosa.

lunedì 15 novembre 2010

Campagna acquisti

È con piacere inenarrabile che diamo il benvenuto tra le fila dei barabbisti, con titolo guadagnato per meriti sul campo, e peste colga chi sosterrà il contrario, a simone e osvaldo. Di seguito le loro biografie essenziali:

simone nasce in romagna, ha scritto un libro, anzi due, suona sempre i chitarrini e fa le polpette. osvaldo nasce nell'isola che non c'è, ha scritto un libro, legge sempre dal vivo e fa i biscotti. Un contrabbasso li seppellirà.

Ora diciamo tutti insieme: "ciao simone, ciao osvaldo".

A tavola con Tiziano Fiorveluti: l'uovo impiccato

Rispolvero un classico della cucina contadina. Se gli ingredienti li comprate da un contadino invece che al supermercato, la ricetta viene più buona, a patto che ci crediate.

Comprate della rete di maiale. Se siete al supermercato, davanti al reparto frattaglie inginocchiatevi e pregate, poi comprate della rete di maiale. Arrivati a casa lavatela e mettetela a mollo una notte, così si ammorbidisce un po'.

Comprate della Verza. Foglie grosse, mi raccomando.
Comprate delle belle uova. Uno per commensale.

Fate a dadini della pancetta, oppure del prosciutto crudo, guanciale, soppressata, speck… Al limite anche del salame, vedete voi. L’affettato della vostra zona. Quello che avanza lo mangerete col pane come antipasto.

Fate a dadini della caciotta o pecorino o dei formaggi simili. Quelli della vostra zona. Quelli che avanzano li mangerete con il pane come antipasto.

Sale e pepe, secondo coscienza.

Tirate via dal forno la gratella. Sistematela in modo che stia su da sola (usate due sedie o quel che vi pare) e poi procedete come segue: stendete la rete di maiale e adagiatevi la verza. Infilate dentro i dadini di salume e i dadini di formaggio. Scocciate un uovo e chiudete la rete, appendendo il fagotto alla grata del forno. Ecco perché IMPICCATO.

Cuocete a 220 per 20 minuti.

sabato 13 novembre 2010

Il gnocco fritto o lo gnocco fritto

Talvolta un solecismo, una forma linguistica che la grammatica definisce scorretta, può essere giustificato se il suo uso risulta continuo e radicato in una determinata area geografica” (TULLIO DE MAURO)
Una specialità antica è presentata a un buon secondo posto – e con ben 23 variazioni – nel ricettario della signora Gilberta Fivizzani da Riolunato, tenutaria della trattoria di Santa Croce. E’ il gnocco fritto, al quale, superando vecchie norme grammaticali, vorremmo rivendicare il diritto di non dipendere dall’articolo “lo” come fosse uno gnòmmero (un garbuglio, un informe groviglio).
Dire “lo gnocco”, con quella cupa nota iniziale “in battere”, è come privare il nostro rispettabile fritto di parte della sua fragranza, è come appesantirgli la vita breve di cibo conviviale, tanto gustoso quanto provvidenziale, ancora oggi, a riempire gli stomachi. L’articolo “il”, al contrario, gli conserva un ritmo “in levare” cònsono con i suoi allegri sfrigolii in padella, moderno come un tempo di jazz o un attacco di reggae.
Con il senso di questa nostra leggera divagazione immaginiamo sarebbe d’accordo anche un caro amico che qui ricordiamo con affetto, il dottor Ignazio Contri, il quale ci lasciò giovanissimo, tradito da un “maledetto chiodo” (come si espresse dolente all’epoca il sindaco di Carpi Cigarini che lo aveva scelto come suo segretario particolare e cerimoniere). Un chiodo staccatosi da una parete delle alpi dolomitiche, proprio contro di lui originario degli Appennini, e proprio del paese di Riolunato. Per giunta Ignazio era parente non lontano degli stessi gestori della “taverna” di Santa Croce. “Val più la prassi che la grammassi” amava dire nelle più diverse occasioni: per amore di calembour e soprattutto per esprimere il suo spirito materialistico sì ma molto dialettico.
Il cantautore nonché recuperante Carlo Alberto Contini (detto Nina) si ostina invece a usare per il gnocco l’articolo “lo”, anche quando parla con i paesani. Viene da pensare che voglia mostrarsi più sintatticamente corretto del dovuto, oppure che intenda aggiungere un che di nobilitante a una sua originale invenzione di qualche anno fa, che lui denominò il “Pittofritto”. “Questa idea – racconta la Nina – mi è venuta perchè in casa si rimaneva troppe volte senza pane per la cena e la mia Carlotta (la moglie, autrice di musiche in cucina ben più accattivanti degli estri del marito paroliere) per sopperire si metteva a preparare lo (il) gnocco fritto, avendo cura di aggiungere all’impasto una presa di bicarbonato a salvaguardia del mio epigastrico cagionevole. Lo (il) gnocco durava poco, al massimo veniva mangiato, già raffermo, la mattina presto del giorno dopo nel caffelatte dal figlioletto Andrea, impaziente di correre verso i banchi di scuola. Allora – prosegue e conclude la Nina – strologai la maniera di allungare la vita allo (al) gnocco. Ideai uno (un) gnocco da freezer, congelato, surgelato, da vendere, sotto vuoto spinto, in busta di plastica biodegradabile. Lo chiamai Pittofritto così, per dargli un nome che potesse imporsi sul mercato, ispirandomi alle Patatine Pai”.
Sono oscuri i motivi dell’insuccesso di quella lontana, sfortunata iniziativa imprenditoriale di Carlo Alberto Contini, ma bisogna dire che si inscrive a buon diritto nella natura stessa delle secolari carpensi pulsioni. Uscire dalla miseria e scongiurarla, guardarsi intorno, annusare (ammusare) quel poco che l’eterna natura onnipossente “che ci fece all’affanno” ci lascia come residuo o scaglia. E adoperarlo, lavorandolo, o facendolo lavorare, con cura, dedizione e intelligenza. Fino a trarne, perché no?, qualche lustrino di illusorio benessere.
Non ricordiamo bene in quale saggio o prolusione o intervento accademico, o semplice conversazione intercettata, il professor Mario Bizzoccoli (musicologo e qualcosa di più) espresse un giorno un pensiero illuminante: questa nostra città ha saputo e soprattutto dovuto gloriosamente inventarsi, per secoli, di tutto: la scagliola surrogato del marmo, il truciolo dai nostri pioppeti salvo poi…, e la maglieria, camiceria pigiami e mutande. Il punto era questo: il carpigiano ha sollevato la testa rispetto a quando la chinava, la povertà lo spingeva a tutto tranne che alla ribellione. E più poveri di lui erano i materiali e i rapporti di produzione.
Per ritornare all’amato gnocco fritto, alle indigeribili tigelle, ai semisconosciuti borlenghi, o crescioni e piade e piadine che dir si voglia, elenchiamo qui sotto quanto è nostro dovere di rimarcare:
MUP, I buoni sapori di casa, TIGELLE, GNOCCO FRITTO & BORLENGHI autrice Marzia Lodi
MUP, I buoni sapori di casa, PIADE, PIADINE & CRESCIONI
autrice Marzia Lodi

venerdì 12 novembre 2010

Mio nonno

Ieri sera, a cena, che era San Martino e da noi, a San Martino, è tradizione che si mangino i maroni, c'era anche mio nonno, Corrado, il disertore, quello che aveva preso un ceffone per colpa della divisa del balilla e che poi, anni dopo, aveva affrontato un celerino. click.

Grande concorso (addendum)

Nel ricordarvi che, se volete, potete disegnare l'header di Barabba, postiamo qualche info aggiuntiva, visto che ce l'hanno chiesto:

- va bene qualsiasi formato;
- potete anche fare un disegnino;
- basta che lo sfondo sia bianco;
- basta che ci sia un titolo e che sia "Barabba";
- e che ci sia un sottotitolo e che sia "chi si salva è perduto";
- ma ognuna delle regole sopraccitate è violabile senza grossi problemi;
- ché siam liberi e libertari.

Spedite pure i vostri manufatti a marcomncrd chiocciola gmail punto com. Ne è arrivato uno solo, per ora.

giovedì 11 novembre 2010

Nel dubbio

Io non lo so, ma l'ultimo euro di benzina, quando hai la pompa in mano e senti che il flusso sembra sparito, e intanto continui a tenere la maniglia premuta mentre il contatore dei soldi rallenta di colpo e va piano, e continua a rallentare per tutto l'ultimo euro di quelli che hai infilato prima nella colonnina automatica, e non è mica così anormale che ti venga il dubbio, al volo, ché ti sembra di esser lì a tener premuta la maniglia per niente, e io non lo so, quell'euro lì, l'ultimo, secondo me te lo fregano.

mercoledì 10 novembre 2010

Grande concorso

L'avevamo chiesto a un po' di disegnatori che conosciamo in carne e ossa, ma poi son talmente indaffarati, quegl'imbrattacarte, che si dimenticano di farlo o non hanno tempo, valli a capire. Allora lo chiediamo a voi, alla rete, perché abbiamo visto che ogni tanto funziona: avete mica voglia di disegnarci un header per Barabba da mettere al posto di quella roba grigina che vedete quassù?

Le regole sono semplici: sfondo rigorosamente bianco, titolo "Barabba", sottotitolo "chi si salva è perduto", dimensioni a piacere ma più o meno le stesse del grigino attuale, spedite il tutto al solito marcomncrd chiocciola gmail punto com.

L'idea l'abbiamo presa da Disma. E facciamo nostre le sue parole, quando dice:

"ovviamente mandandomi il coso, rinunciate a qualsiasi diritto su di esso e se un domani un architetto di successo me lo volesse comprare per usarlo come spunto per la forma di un grattacielo io sarò l’unico beneficiario dell’assegno dell’architetto di successo. Se poi questa meschina iniziativa non dovesse avere successo, al contrario dell’architetto, la farò cadere nell’oblio dimenticandomi di averla mai avviata. Presto! Veloci! La fama vi aspetta!"

martedì 9 novembre 2010

CCCP

Chiedevo sempre a mio padre cosa volesse dire C.C.C.P., quando lo leggevo sulle canottiere degli atleti ai mondiali o alle olimpiadi. Mio padre rispondeva tutte le volte: “Col Cazzo Che Perdiamo!”. Avevo dieci anni quando cadde il muro. Quasi undici.

lunedì 8 novembre 2010

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Gamberoni gourmandizer con tortino di patate e vongole

Affettate una cipolla tropea. Ammollatela in acqua e tenetela lì.

Lessate delle patate o cuocetele al vapore. Per me cambia poco, tanto vanno schiacciate per bene e mescolate tipo insalata insieme a un uovo per commensale, poco burro fuso, del curry, delle vongole. Prendetele in scatola, che fate prima. Oliate degli stampini e metteteci dentro il compostone. Cuocete in forno caldo a 180 gradi fino a quando la parte visibile non è ben dorata.

Mentre cuoce, mettete a soffriggere la cipolla con un po' di burro e olio, quando comincia a dorare caramellatela versandoci sopra una discreta quantità di zucchero. Scottate i gamberoni sulla griglia per qualche minuto e serviteli con sopra la caramellata di cipolle.

A fianco mettete il tortino.
Una Guinness.

domenica 7 novembre 2010

Biografie essenziali (speciale Bolero)

Frank Zappa amava la musica e odiava i musicisti. Scriveva partiture complicatissime per soddisfare entrambe le pulsioni.

Tazio Nuvolari fece di tutto per non morire nel suo letto, ma non vi riuscì.

Luciano Re Cecconi era un centrocampista abilissimo nelle finte. Non solo in campo.

Paolo Volponi fu il primo dirigente FIAT ad iscriversi al PCI, nonché uno dei più rapidi ad essere licenziato.

Pierangelo Bertoli si poteva definire tranquillamente uno con la schiena diritta. Purtroppo solo metaforicamente.

Tutti sanno che i jazzisti negri sono dei drogati. Per questo quando Eric Dolphy arrivò all'ospedale di Berlino in piena crisi iperglicemica da diabete lo presero sottogamba.


(di Stefano Pederzini aka Bolero)

sabato 6 novembre 2010

Biografie essenziali (95)

Venedict Erofeev temeva per il suo collo e usava sempre una sciarpa per proteggerlo. Diagnosi corretta, terapia sbagliata.

giovedì 4 novembre 2010

Un diamante è per sempre

L’altra sera guardavo una partita delle World Series, la finale del campionato americano di baseball, quella dove se vinci sei il campione del mondo, anche se ci giocano solo delle squadre americane. Dopo un’ora e mezza ho pensato Toh, guarda, è già finita una partita di calcio. Ed eravamo al quinto inning, circa a metà.

Poi ho pensato che nel baseball americano ci sono delle regole strabilianti. Il faul ball, per esempio, dove il battitore colpisce la pallina e questa gli schizza dietro la testa, verso le tribune, o comunque fuori dal campo ma non di fronte, altrimenti sarebbe home run, e vale come strike solo se il battitore ha meno di due strike sul groppone, altrimenti non vale e si deve rifare, e a lui gli può capitare un altro faul ball e allora bisogna rifare ancora, e questa cosa qui può andare avanti per sempre.

Oppure il tentativo di rubare una base, per esempio, dove un tizio che ha conquistato una base, mentre il lanciatore sta decidendo che tiro tirare al battitore, lui, il tizio, prova a correre verso la base successiva, ma il lanciatore se ne accorge e tenta di eliminarlo buttando la palla al suo compagno in difesa sulla base già conquistata, allora lui, il tizio che sta correndo, è costretto a tornare indietro verso la base dov’era prima e toccare il cuscino prima che lo faccia il compagno di squadra del lanciatore, e intanto il battitore è lì che si gira i pollici perché non deve fare niente, e se il tizio che voleva rubare una base torna indietro e si salva, quando il lanciatore si rimette a pensare al tiro da tirare al battitore, lui, il tizio che è tornato indietro, può provare a rubare una base di nuovo e il lanciatore a fregarlo ancora, e questa cosa qui può andare avanti per sempre.

Oppure il pareggio, per esempio, che non esiste, perché nel baseball americano o vinci o perdi, magari piove e si annulla tutto, ma non si può pareggiare, e quindi, arrivati al nono inning, che è l’ultimo, di solito, se le due squadre son pari, si fa un altro inning, il decimo, e poi se dopo il decimo inning, che son già quasi passate tre ore di gioco, le due squadre sono ancora pari, allora si fa un altro inning, l’undicesimo, e questa cosa qui può andare avanti per sempre.

Ecco, a me questa cosa qui, che esiste uno sport così, nel mondo, e non è un caso che sia proprio in America, dove sembra sempre tutto tirato al massimo, al limite, come la farcitura dei panini, questa cosa qui, dicevo, questa cosa che esiste uno sport dove una partita può durare per sempre, mi manda giù di testa.

martedì 2 novembre 2010

Che libro strano

La prima volta che ho letto la centoventotto rossa (si scrive così, senza maiuscole) ho pensato Che libro strano. Quando l'autrice, l'elena (si scrive con l'articolo e la minuscola), mi ha chiesto cosa ne pensassi, io le ho risposto Non lo so, non so neanche farti delle critiche, ti conosco troppo bene, come faccio? Poi l'ho chiuso e sono andato alla finestra. Che strano, ho pensato. Non bello, non brutto, non un qualsiasi altro aggettivo che potesse passarmi per la testa, no, mi veniva in mente solo quella cosa lì, che era un libro strano.

La centoventotto rossa è un frattale. Dopo le sue centoventidue pagine ti sembra di avere in testa una forma, diciamo un quadrato, tanto per capirci e farci un'idea visiva. Poi ci ripensi, e quel quadrato ti accorgi di averlo trovato, nella sua interezza, in ognuno dei racconti del libro. E allora ti rimetti a pensare, e trovi ancora lo stesso quadrato in tutte le pagine, anche prese una per una, e scopri che ogni frase è lì a ribadire e rappresentare lo stesso quadrato. Non importa che a parlare o a pensare sia ora un personaggio maschile, ora uno femminile, ora una bambina, ora un non si sa chi. La centoventotto rossa è il libro ed è il quadrato, ma la centoventotto rossa, il quadrato, è anche ogni racconto, ogni pagina, ogni frase.
La mia capacità di analisi, come al microscopio, arriva fin lì, alle frasi, che sono la cosa più piccola che riesco ad analizzare. Con una raffinatezza ottica migliore, una cosa che io non ho, magari si può arrivare alle parole, all'inchiostro, ai pori della carta, alle molecole, agli atomi, alle particelle e così via, e secondo me, se uno riesce a farlo, dovrebbe trovare sempre quel quadrato che all'inizio avevamo preso per semplicità, per farci un'idea visiva. Insomma, trova sempre la centoventotto rossa.

La centoventotto rossa, quel quadarato frattale che si ripete nella sua interezza, è una ragazza che cammina sola per la strada, di sera; cammina lenta, pensierosa; è triste, è appena piovuto e lei non ha una gran voglia di tornare a casa, allora è lì che cammina; cammina lenta e pensa, si fa delle domande e si risponde. Alle domande che si fa, e sono tante, si risponde sempre Boh.

La prima volta che ho letto la centoventotto rossa ho pensato Che libro strano. Secondo me è un complimento.

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(Elena Marinelli, “la centoventotto rossa”, Autoprodotto, pagg. 122, 10 euro)

lunedì 1 novembre 2010

Il naso rosso (climax)

L'ingegnere si morse le labbra con dispetto, si mise a navigare su internet e, contrariamente alle sue abitudini, decise di non commentare nessuno e di non laicare alcunché. Tutt'a un tratto si fermò come inchiodato su FriendFeed; sotto i suoi occhi si verificava un fenomeno inspiegabile. Nella pagina principale c'era una discussione; avvicinandosi allo schermo vide un uomo in giacca e cravatta. Quale non furono lo spavento e nello stesso tempo lo stupore dell'ingegnere quando in lui riconobbe il proprio naso rosso! Davanti a questo spettacolo insolito, così almeno gli parve, la sua vista si annebbiò; sentiva che poteva appena reggersi in piedi, ma decise di aspettare a qualunque costo il ritorno del naso rosso nella discussione, sebbene tremasse tutto come in preda al delirio. Due minuti dopo, effettivamente, il naso rosso scrisse un commento. Indossava giacca e cravatta, una camicia azzurrina con un grande colletto; aveva lo sguardo intelligente e l'espressione semiseria. Dalla forma del viso si poteva dedurre che si considerava un impiegato della Apple, un Michele Campeotto. (*)

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Marugoni pastellati

In primavera le piante sono in fiore e anche le acacie non fanno eccezione. I fiori di acacia, dai quali si ricava un miele a costo contenuto, sono molto comuni. Qui da noi in Emilia si chiamano "MARUGOUN" e la pianta dell'acacia viene anche detta "MARUGA".

Maruga è anche il soprannome che viene dato a quelli un po' zucconi, ma non c'entra il vegetale (zucca) quanto la testa. La MARUGA, appunto.

Questa ricetta, curiosamente, va bene anche per i fiori di zucca. Ma quelli di Maruga costano meno. Li potete trovare in tutte le strade, sulla via Emilia ce ne sono un sacco. Magari non prendete i fiori proprio dalle piante sulla via Emilia, ché quei fiori lì son quasi grigi per via dello smog. Andate, che ne so, in riva al Secchia o al Panaro, all'Enza, al fiume che volete. Lì troverete dei bei fiori bianchi, li mettete dentro a una sporta e andate a casa.

Lavateli.

Fate una pastella con la birra di grano, la farina 00, il sale, il pepe, il latte e le uova. Impastellate i fiori di Maruga e friggeteli in abbondante olio bollente, poi asciugateli con la carta per fritture.

Servite accompagnato da una birra bianca.