domenica 31 ottobre 2010

Decalogo

1
UN PIEDE ALLA VOLTA
2
POI PASSARE ALL'ALTRO
3
USARE TUTTE DUE LE MANI
4
LACCI LUNGHI UGUALI
5
È LA COSA PIù LUNGA DA FARE QUANDO HAI FRETTA
6
DOPO LA PRIMA VOLTA TI SENTI FINALMENTE PARTE DELL'UMANITà
7
A OCCHI CHIUSI È QUASI DA ONANISTI
8
QUANDO POI FARAI IL NODO ALLA CRAVATTA
ENTRERAI NEL MONDO ADULTO
9
DOPO AVER FATTO L'AMORE È PIù FACILE
10
SOTTO, SOPRA E INCORCIA, GIRA, GIRA, INCROCIA E STRINGI, PRATICAMENTE LO SCHEMA DEL FOGGIA DI ZEMAN

(scritto in occasione di questo nell'ambito di questa iniziativa)


venerdì 29 ottobre 2010

A voce alta

C'è una bella differenza tra leggere ad alta voce, in pubblico, e leggere a voce alta, sempre in pubblico. Leggere ad alta voce implica predisposizione, premeditazione, impostazione, studio. Bisogna esser bravi. Leggere a voce alta è più semplice, forse più intimo, e consiste nell'azionare tutto d'un colpo l'interruttore che accende le corde vocali del nostro leggere mentale, tirare su la manopola del volume e portare le parole del libro alla luce in modo pressoché spontaneo. Bisogna essere sé stessi.

Ecco, io leggo a voce alta. E quando quella che legge sempre dal vivo, che invece legge ad alta voce, mi dice che son bravo, io vengo investito da un'ondata violenta di imbarazzo, gratitudine e spavento. Però qualcosa di vero ci deve pur essere, perché mi applaudono, sovente. Sarà per via dell'accento. La cosa bella è che quando lo faccio tremo ancora come una foglia. Roba che nemmeno quando canticchiavo il rocchenrol da ragazzino.

Tutto ciò per dire che quella che legge sempre dal vivo ha scritto un libro, si chiama la centoventotto rossa, e lo presenta domenica a Rolo, lì al confine col mio natio borgo selvaggio. Mi ha chiesto di leggerne un pezzetto in pubblico. Lo farò, a voce alta.

La cosa si ripeterà allo Zammù di Bologna, il 4 novembre, che è il giorno della vittoria, una volta era festa, ora non più. E poi ce le portiamo in giro, quella che legge sempre dal vivo e la centoventotto rossa, col tour di Schegge di Liberazione, a Perugia e a Roma. Abbiam pensato di chiamare queste serate: Resistenza a motore. Che fantasia, eh?

E niente, ogni occasione è buona per darci e ricevere delle gran pacche sulle spalle, far tintinnare i bordi di vetro dei rispettivi calici, abbracciarci, che è sempre una bella cosa, e sparare corbellerie fino a notte inoltrata. Ci vediamo presto, dai.

_____

(update 1: mi son dimenticato di dire che a Rolo leggo a voce alta anche un pezzo di quello che suona sempre il chitarrino e non legge mai perché, come si dice dalle nostre parti, s'intartaglia. Sarà l'ultimo sbriciolu(na)glio ballabile, nel senso che il libro che ha scritto quello del chitarrino è praticamente esaurito. Gli abbiam detto di fare un ebook, ma lui è un mujaheddin della carta e nicchia sempre sulla questione)
(update 2: mi son dimenticato di dire, poi, che il 6 novembre, che non è festa, ma è un sabato, leggo a voce alta un pezzo della centoventotto rossa allo spazio Meme di Carpi, un posto dove ci sono le birre artigianali e io ci arrivo a piedi)

giovedì 28 ottobre 2010

mercoledì 27 ottobre 2010

Fantasie di un magazziniere: Ci

Nel bar di Mirandola dove ogni tanto, quando faccio tardi e non faccio colazione a casa, prendo un caffé o un cappuccino veramente ottimo (offrono pure pezzi di torta al bancone, forse per distrarti dalla permanente a casco della proprietaria), ieri mattina sulla lavagnetta del menu con calligrafia corsiva femminile e gesso rosa campeggiava:
Conosco un essere (di sesso maschile) che se gli dessero soldi per ogni minchiata che dice, con i 50€ ci si potrebbe pulire il culo.

martedì 26 ottobre 2010

W

Avevo un sogno, quand’ero piccolo: fare l’astronomo. Dev’essere iniziato tutto quando ho scoperto che mio zio era socio di un gruppo di astrofili, e quando andavo a trovarlo c’eran sempre tutte queste riviste di astronomia, nel suo bagno. Lui, mio zio, faceva l’operaio, ma un giorno si vede che ha tirato su il naso, di notte, verso il cielo, e da quel giorno lì non è più riuscito a tirarlo giù. Io, poi, non capivo niente di quello che c’era scritto su quelle riviste di astronomia, ma guardavo le figure, eran belle da perdere il fiato. Allora lui, mio zio, mi ha portato fuori al buio, era inverno, mi ricordo, e mi ha fatto vedere le costellazioni. La vedi quella lì a forma di W?, mi ha detto, quella lì è Cassiopea.

Quel sogno di diventare astronomo non è mica andato via. Dev’essere per quello che alle medie sapevo già tutti i nomi delle costellazioni, soprattutto quelle invernali, che secondo me eran le più belle, con Orione, che proprio lo vedi tendere l’arco, Sirio, che brilla più di tutte, e Cassiopea, che poi si vede tutto l’anno perché è circumpolare (sapevo questa parola difficile che faceva sempre un figurone, a scuola) e mi divertivo a dire agli amici: Oh, guarda, la vedi quella W?, quella è una tipa mezza nuda e mezza coricata. E loro, i miei amici, non capivano e mi mandavano a cagare. Però io la vedevo, sensuale, bellissima, ci facevo anche dei pensieri strani, con Cassiopea.

E continuavo a sognare di fare l’astronomo. Dev’essere così che mi son messo a leggere i libri di astrofisica, il primo è stato Stephen Hawking, sempre alle medie. Mi ricordo che leggevo Cuore di tenebra al pomeriggio e Dal big bang ai buchi neri la sera. E la bocca mi si spalancava per i grandi fiumi africani come per lo scoprire che la distanza più piccola tra due punti non è una retta, che era quello che ci stavano insegnando in geometria. Ogni pagina era un giramento di testa. E la sera guardavo il cielo e lei era sempre lì, sempre a W, sempre mezza coricata e con pochi vestiti, e anche se adesso sapevo che era solo una questione di prospettiva, la sua W, lei era sempre sensuale e bellissima, Cassiopea.

Quel sogno di fare l’astronomo non andava mica via. E un giorno, quand’ero più grande, alzo gli occhi al cielo, come quasi tutte le sere, e vedo Hale-Bopp. Rimane lì per dei giorni, stampata nel cielo, e mi entrano le zanzare in bocca mentre sto a guardarle la coda. Nel frattempo scopro che mio zio e il suo gruppo di astrofili, insieme all’osservatorio di Castelnuovo Sotto, avevano fatto la foto più bella del mondo alla cometa e che la NASA li aveva contattati e gliel’aveva comprata. Però in quei giorni, mentre tutti avevano gli occhi verso Hale-Bopp, io dicevo: Guardate anche là, a nord, la vedete quella W? È bella, non è vero? È Cassiopea.

E insomma, avevo un sogno: fare l’astronomo. Solo che poi, sempre in quei giorni lì, quelli di Hale-Bopp, mi dicevan tutti di diventare un ingegnere, che ero portato, che si trovava lavoro, che secondo loro era la mia strada. E io, che non ho poi ‘sta grande spina dorsale, niente, ho ceduto, ho fatto ingegneria. Così il sogno se n’è andato, e progressivamente ho smesso di guardare le figure sulle riviste di astronomia, ho smesso di leggere libri difficili di astrofisica, ho smesso di dire ai miei amici guarda quella W, guarda com’è bella, stasera, mezza nuda e mezza coricata, Cassiopea.

L’ho tradito, quel sogno di fare l’astronomo, l’ho tradito in malo modo, ma fa lo stesso. Ora ho letto Seconda stella a destra, il libro di Amedeo Balbi che ho trovato nella sezione Ragazzi della libreria, e, porcavacca, la testa mi si è riaperta in due. Volevo scriverci un post, ma ci ha pensato Squonk, ha detto tutto quello che c’era da dire. Di mio volevo scrivere che da stasera, nella sezione dello scaffale del salotto dove raccolgo i libri che si farà leggere o leggerà il mio futuro figlio – non è nemmeno in programma, per ora, non preoccupatevi, però non si sa mai – insieme a Pinocchio, Alice, Il piccolo principe, Tom Sawyer e qualche altro, ci sarà anche Amedeo Balbi. Ma io, adesso, proprio ora, mentre scrivo, ho una smania che non vi dico di riveder le stelle. E dovrò aspettare dei giorni, perché ieri pioveva, oggi anche, domani pioverà, m’immagino, e io aspetto e aspetterò che si schiarisca un po’ il cielo per poi tirar su il naso, guardare verso nord e cercare una W. E chissà come sarà, dopo così tanto tempo che non la guardo. Sarà invecchiata, perché le sue stelle pian piano, impercettibilmente, l’una dall’altra le si sono allontanate. Ma lei sarà lì, ancora, lo so, farò pensieri strani, forse, e le chiederò come stai, come stai e da quanto non ci vediamo, eh, piccola donna mezza nuda e mezza coricata? Son sempre io, sai? Anche se ti ho tradita, ma è la vita. Ma parlami di te, piuttosto, come stai, lassù, e come fai a rimanere cosi sensuale e cosi bella, dopo tutto questo tempo, Cassiopea?

lunedì 25 ottobre 2010

A tavola con Tiziano Fiorveluti: cous cous sacrilego

Cuocete il cous cous. Usate quello pronto, seguendo le istruzioni sui pacchetti. Qualche purista si infurierà, ma, per parafrasare Ugo Tognazzi ne La grande abbuffata, quando gli fanno notare che molta carne è surgelata, “Chi siamo noi per fermare il progresso ?”

Andrà condito con guanciale di maiale, tagliato a dadini e soffritto lentamente in padella con uno spicchio d’aglio (se non è troppo grasso, potete metterci un cucchiaio d’olio) e con broccoli lessati in acqua salata. A questi uniremo (abbondando) chiodi di garofano e peperoncino.

In molti associano il cous cous alla religione musulmana. Se questo può esser vero, è anche vero che gli arabi lo hanno lasciato in eredità ai popoli da loro assoggettati nel corso della Storia e quindi oramai questa gustosa base di carboidrati è una cosa internazionale. Tuttavia, per quelli più ottusi e per i tipi à la Borghezio, che faceva pisciare i maiali sui terreni nei quali dovevan sorgere le moschee, un piatto del genere può rappresentare una libidinosa alternativa ideologica. Per gli atei come il sottoscritto, viceversa, si tratta semplicemente di una roba buona. Non ce l’ho con l’Islam, almeno non più che con la religione cattolica. Il nome dunque va preso per quello che è: “Una boutade” (per essere eleganti).

domenica 24 ottobre 2010

(Trascrizione più o meno fedele di) Non è star sopra un albero: ebook collettivi e socialcose che si fanno senza carta

(sotto richiesta insistente di blodeinside, quello che segue è il mio speech all'EAVIcamp di ieri. Ed è anche un calco spudorato di quello fatto al WriteCamp, ma mi hanno applaudito ancora. Pensa te, la gente)

Buongiorno.

Si sente se parlo così?

Prima di cominciare vorrei ringraziare l'organizzazione dell'EAVIcamp – fin qui mi è sembrato interessantissimo, e mi scuso anticipatamente se il mio intervento imbolsirà tutta la questione, è anche tardi; e poi ho questa cosa che non riesco a parlare a braccio e mi son scritto tutto, spero che non vi disturbi – ringrazio tutti e in particolar modo vorrei ringraziare Andrea Zanni, che mi ha contattato via mail dicendomi: Mi è piaciuto molto l'intervento che hai fatto al WriteCamp, vuoi farlo anche all'EAVIcamp di Modena? Io gli ho risposto: Ok, ma ne scrivo un altro, perché ho la mia deontologia spicciola da rispettare. Ed eccomi qui, sul pulpito, a dire delle cose. Tanti anni fa, in questa stessa aula, stavo dall’ altra parte della cattedra.

Il mio intervento si intitola Non è star sopra un albero: ebook collettivi e socialcose che si fanno senza carta e affronta questioni legate alla creazione di ebook collettivi e gratuiti da parte, essenzialmente, degli scrittori che abitano la blogsfera, questioni di libri digitali e partecipazione, quindi siamo a tema con l'evento, credo.

***

Quella che vorrei raccontarvi è una storia recente, comincia all'inizio del 2010, febbraio, per la precisione, quando, dopo aver riesumato un vecchio blog di nome Barabba – un blog collettivo, anche se ci scrivevamo solo in due, adesso siamo cinque o sei, ma prima solo due, e da un po' avevamo anche smesso di scriverci perché non c'erano stimoli, ma è un'altra storia – dopo aver riesumato Barabba, dicevo, perché ci era tornata la voglia e perché mi ero appena iscritto a FriendFeed e lì tutti hanno un blog, un giorno di febbraio mi incontro col mio socio e gli dico: 'scolta, perché non facciamo un ebook sulla Resistenza, visto che quest'anno, a Carpi, c'è l'anniversario di Materiali Resistenti? Lui, il mio socio, che è un tipo un po' tecnovillano, mi ha detto Perché no, mi sembra una bella idea, occupati tu della parte internettiana che io penso alla serata di presentazione. Va bene, gli ho risposto, allora siam d'accordo. Lui mi ha detto: sì.

La storia che vi sto raccontando, in realtà, parte da molto lontano, da un altro blog, che si chiama Squonk, dove dal 2003, ogni anno, sotto Natale, il titolare chiama a raccolta la blogsfera per il Post sotto l'Albero. Il Post sotto l'Albero è un ebook vagamente natalizio, in pdf, nel quale i blogger scrivono delle cose e lui, Squonk, le mette insieme, come un raccoglitore, e fa questo regalo alla rete lasciandolo scaricare gratuitamente a chi voglia leggerlo.

A me serviva una leva per convincere il mio socio, che, come vi ho detto, è un po' tecnovillano, e il Post sotto l'Albero sembrava una carta vincente. E infatti…

Ma torniamo a noi, all'ebook sulla Resistenza.

Appena abbiam detto facciamolo, ho pensato di diramare un appello su FriendFeed – avevo una trentina di iscritti al mio profilo, all'epoca – e ho chiesto: cosa ne dite se facciamo un ebook collettivo sulla Resistenza, come il Post sotto l'Albero, per intenderci, ma sulla Resistenza?

Il giorno dopo avevo quadruplicato gli scritti e avevo già un sacco di commenti, messaggi e mail di gente che mi diceva: che bello, proprio una belle idea, io ci sto.

Da lì siam partiti col reclutamento: via twitter, facebook, tumblr, il blog, a voce, eccetera. Ci eravamo inventati un tormentone, Barabba dice 26x1, e lo ripetevamo ossessivamente in ogni proclama, così, per entrare nella testa della gente, prendendo spunto ancora da Squonk, che per il Post sotto l'Albero dice a tutti: Hop hop hop. E quando tu sei su internet, su FriendFeed in particolare, e leggi Hop hop hop , sai che devi sbrigarti a scrivere un post per lo Squonk, perché Natale si avvicina, non si scappa.

Il 15 aprile, la deadline per la consegna, avevamo già raccolto una sessantina di contributi, tra racconti, saggi, ragionamenti, poesie, disegni, foto e perfino un monologo teatrale molto lungo.

Così abbiamo impaginato un ebook, un libro di 211 pagine in pdf, e gli abbiamo dato un titolo, Schegge di Liberazione (tanto per richiamarci ai Materiali Resistenti, ci sembrava un buon titolo), e l'abbiamo presentato in pubblico il 24 aprile, in un locale di Carpi, con delle letture e dei blogger che erano venuti per leggere i propri pezzi o quelli altrui, o anche solo perché erano curiosi.

È stato un successo. Senza che muovessimo un dito ci han chiamati a leggerlo a Bologna in un festival di culture antifasciste, in radio, sempre a Bologna, poi hanno appeso i racconti in una villa di Mestre e l'abbiamo letto a Milano, a novembre dobbiamo andare ancora a Bologna, a Perugia e a Venezia, e a Roma (pensa te, a Roma) a dicembre... insomma, un ebook e un tour, proprio come per i libri veri, quelli di carta.

***

Eravamo così galvanizzati che verso la metà di maggio mi incontro col mio socio, quello un po' tecnovillano, e gli dico: senti, veh, perché non facciamo un ebook sulla Sfortuna, visto che quest'anno, a Carpi – adesso sembra che succeda tutto a Carpi – c'è il decennale del Festival di Filosofia e il tema è la Fortuna? Lui, il mio socio, mi ha detto Perché no, tanto siamo in ballo, mi sembra anche una bella idea, occupati tu della parte internettiana che io penso alla serata di presentazione. Va bene, gli ho risposto, allora siam d'accordo. Lui mi ha detto: sì.

Di nuovo, ho pensato subito di diramare un appello su FriendFeed. Ho chiesto: cosa ne dite se facciamo un ebook collettivo sulla Fortuna eccetera eccetera, come il Post sotto l'Albero, come Schegge di Liberazione?

Il giorno dopo avevo già un sacco di commenti, messaggi e mail di gente che mi diceva: che bello, io ci sto. E alcuni erano gli stessi di Schegge di Liberazione, altri, visto che la voce si era sparsa bene, erano nuovi.

Siamo quindi ripartiti col reclutamento: via twitter, facebook, tumblr, il blog, a voce, eccetera. Ci eravamo inventati un altro tormentone, diceva: Accettate la sfiga, ed era il primo calembour che ci saltava in mente, ma funzionava.

Il 9 settembre, la deadline per la consegna, avevamo già raccolto più di sessanta contributi, tra racconti, saggi, ragionamenti, poesie, disegni e foto. Così abbiamo impaginato un ebook in due volumi di oltre 130 pagine l'uno, in pdf, ma stavolta anche in epub e mobi, che in pochi mesi i tempi erano cambiati, e gli abbiamo dato un titolo: Cronache di una sorte annunciata, che era il secondo calembour che ci saltava in mente.

L'abbiamo presentato in pubblico venerdì 17 settembre, in un locale di Carpi, con delle letture e dei blogger che erano venuti per leggere i propri pezzi o quelli altrui, o anche solo perché erano curiosi.

È stato un altro successo. Nella piazza lì di fianco c'era Erri De Luca, ma è andata bene lo stesso. Talmente bene che abbiamo deciso di rileggerlo tutti i venerdì 17 da qui alla fine della Storia, in un locale che si è detto disponibile per questa mattata. La prossima lettura è a dicembre, quella dopo a giugno del 2011 e così via.

***

Non so se ne faremo degli altri, di ebook collettivi con la blogsfera, perché è un gran lavorare. È bello, ma è un gran lavorare, gratis, oltretutto, e a stare delle notti intere a impaginare si rischia anche il divorzio.

Però da questa esperienza abbiamo capito delle cose sulla rete e sul reclutamento degli scrittori in rete. Abbiamo capito che c'è un sacco di gente che ha voglia di scrivere, basta solo dargliene l'opportunità contattandoli sui vari socoalcosi. Su alcuni di questi la chiamata funziona bene, su altri meno.

Non funziona su facebook, per esempio, dove nessuno, in fondo, legge la bacheca, e infatti han fatto bene a chiamarla bacheca. Sarà che soprattutto è gente che conosci dal vivo, sarà che, a parte postare dei video o commentare gruppi discutibili, di tutto il resto non frega niente a nessuno, ma facebook non è un luogo dove le persone discutono. È utile a cose fatte, per la promozione, ma è un altro discorso.

Non funziona su twitter, che in fondo è un canale monodirezionale, simplex, con alcuni momenti fastidiosissimi di half duplex, cioè come i walkie-talkie. Cercare di reclutare scrittori su twitter è come sparare a salve: fai un gran botto, lo sentono tutti, ma non colpisci nessuno.

Non funziona a voce, dove i tuoi amici ti dicono sì partecipo volentieri, poi si dimenticano. Ma d’ altra parte ognuno ha gli amici che merita.

Funziona invece con un blog, che ti dà una certa autorevolezza e vien letto dalla gente, perché la gente, tutto sommato, i blog li legge ancora. Funziona con tumblr, che poi è una versione rapidissima della blogsfera. E funziona soprattutto con FriendFeed, questo socialcoso che è anche un luogo di conversazioni, discussioni, liti furibonde, tacchinaggi estremi, ma in fondo un posto dove la blogsfera italiana partecipa e condivide, un luogo totalmente duplex, quasi puramente bidirezionale, dove nel marasma generale le idee buone riescono a fare breccia.

***

Non ho altro da aggiungere sulla questione. Se volete, potete andare su Barabba e scaricare Schegge di Liberazione e Cronache di una sorte annunciata, che nel frattempo son diventati dei blog autonomi e continuano a crescere con contributi inediti, si chiamano Schegge di Librazione e Cronache di una sorte annunciata. Cercando su Google, trovate tutto.

Poi, sempre se ne avete voglia, potete venirci a vedere quando li leggiamo in pubblico e, se ve la sentite, potete venire a leggere anche voi, potete dircelo all'ultimo minuto, tanto noi siam lì, è tutto gratis.

Se faremo degli altri ebook non esiteremo a comunicarvelo, proprio come abbiamo già fatto e come ho spiegato nel corso del mio intervento. E se ne farete voi, invece, e le cose che ho detto oggi vi saranno state d'aiuto, ditecelo pure che ci fa piacere.

***

Insomma, per concludere il mio intervento, noi di Barabba abbiam capito che per fare degli ebook collettivi con gli scrittori che abitano la blogsfera, servono un blog – non necessariamente, ma è meglio averlo, anche solo per accaparrarsi un po' di credibilità – e soprattutto FriendFeed. Lì i blogger, straordinariamente, hanno trovato un luogo di aggregazione formando una community abbastanza affiatata e partecipativa. Funziona benissimo, almeno in Italia, dalle altre parti non so. Forse in Turchia.

Non sappiamo se questo, cioè il fatto di fare dei libri elettronici gratuiti e collettivi, potrà mai diventare un aspetto, seppur marginale, della nuova editoria digitale che sta nascendo in questi giorni. Ma dall'esperienza di due ebook, che non dobbiamo aver paura di chiamare libri, dove gli srittori grandi e piccoli, fino ai nomi importanti come Leonardo, Spinoza e Simone Rossi, per dirne alcuni, non si fanno problemi a collaborare e a partecipare, abbiamo capito che uno dei modi possibili per liberare la parola dal suo supporto tradizionale, dalla sua prigione cartacea, e farlo gratuitamente, servono un po' di tempo da perdere e un luogo di discussione vera e bidirezionale tra blogger e raccoglitori, tra scrittori ed editori.

Come ci hanno insegnato Schegge di Liberazione, Cronache di una sorte annunciata e il capostipite, il Post sotto l'Albero di Squonk, e come ci ha insegnato quel bravo canzonettista milanese, volendolo parafrasare: la libertà – della parola scritta, nel nostro caso – non è star sopra un albero: la libertà è partecipazione.

Grazie a tutti. Ho finito.

venerdì 22 ottobre 2010

Il naso rosso (continua)

L'ingegnere si avvicinò timidamente a uno specchio e guardò.
«Al diavolo, che razza di porcheria!» esclamò e sputò in terra.
«Ci fosse almeno qualcosa al posto del naso rosso, macchè! niente!...» (*)

giovedì 21 ottobre 2010

Il naso rosso

L'ingegnere si svegliò abbastanza presto e con le labbra fece «Brr...», cosa che faceva sempre quando si destava, sebbene nemmeno lui sapesse spiegare perché. L'ingegnere si stirò, ordinò di dargli un piccolo specchio che stava sul tavolo. Voleva guardare un foruncoletto che la sera prima gli era spuntato; ma, con suo sommo stupore, vide che al posto del naso rosso aveva uno spazio perfettamente liscio! Spaventatosi, l'ingegnere ordinò di portargli dell'acqua e si fregò gli occhi con l'asciugamano: proprio così, niente naso rosso! Cominciò a tastare con la mano per vedere se non stesse ancora dormendo. No, a quanto pareva, non dormiva. L'ingegnere saltò giù dal letto, si diede uno scrollone: niente naso rosso!... Ordinò subito di portargli i vestiti e volò direttamente a scriverlo sull'internet. (*)

mercoledì 20 ottobre 2010

Son fatto così (3)

Son fatto che quando uno mi dice Ho voglia di vederti, ed è un amico, spesso, o Andiamo a prenderci una birra che è un po' che non ci vediamo, mi dice, che son cose normali, penso, son cose anche sane, vedersi, quando è un po' che non ci si vede, ma quando uno dice che vuole vedermi, dicevo, e mi manda un messaggio o mi telefona, e gli rispondo Va bene, non c'è problema, ok, il tal giorno alla tal ora, quando poi arriva il giorno dell'appuntamento, qualche ora prima, io, di solito, gli mando un sms con scritto Scusa, oggi non posso, davvero. E non è mica vero. Son fatto così.

martedì 19 ottobre 2010

Fantasie di un magazziniere: Orgoglio e Pregiudizio

Stamattina, consegna da effettuare presso l'ospedale.

L'ospedale di Carpi, che ha un'intera ala e un ingresso che portano il nome di una famiglia di benefattori (questa borghesia illuminata, sembrano secoli dagli attuali squaletti...). Una classe così illuminata da avere collocato all'ingresso un servizio di portineria con tanto di numerino come alle poste (tutti questi malati, la calca, il caldo, i bacilli, per carità, la folla dei bisognosi è spettacolo riprovevole, va eliminata, con albionico rigore). Mentre attendo paziente il mio turno (il mio numerino è il 23, il display segna il 12 e davanti in fila ho solo una persona...), alle spalle della portinaia sbuca una suora, di quelle classiche, da caricatura. Altissima, viso smunto da Emmenthal, dentoni e occhiali. Canonica, appunto.

Come da protocollo, è a caccia del nuovo numero de L'Avvenire che è certamente giunto in portineria ma che ancora non ha raggiunto il suo desco pentecostale. Lo chiede gentilmente, la portinaia blocca tutte le operazioni, lo cerca, lo porge a lei che lo prende, ringrazia, ironizza sulle capacità ubique e mai riconducibili al regno dell'umano del quotidiano e se ne va.

La routine riprende ma subito vengo individuato (porto tra le mani due scatole sufficientemente voluminose da attirare l'attenzione di ogni normovedente) e gentilmente interrogato in deroga al numerino illuminato (poi non lamentatevi se le cose in Italia ci sono ma non funzionano...) e dopo qualche secondo vengo informato circa la mia destinazione.
"Prenda l'ascensore qui a destra, terzo piano, non può sbagliare".

Trepidante, con le prime gocce di sudore che m'imperlano la fronte, arrivo dove indicatomi. E trovo lei, la suora. Mademoiselle Emmenthal (o Emmenthaler che dir si voglia). In attesa, pure lei. Non mi guarda nemmeno arrivare, ciondola il giornale come una vispa teresa, percepisce la mia presenza ma l'attesa dell'ascensore è più rilevante, e quest'attesa è simbolizzata dal suo sguardo che fissa un punto a due metri e trenta d'altezza, un pezzo di muro vuoto sopra l'ascensore.

E qui comincia il mio stallo.
Tutto è durato pochissimi secondi ma il dubbio ha dilagato il tempo all'infinito.
Non sono mai stato in ascensore con una suora. Mai. Neanche una volta. Nemmeno per sbaglio.
Nemmeno nei miei più disturbati sogni erotici.
E questo è un ascensore di quelli piccoli. Sìsì, è di quelli normali. Non è di quelli dove ci si sta in dodici più un paio di barelle coi barellieri. Che a quel punto io potrei tranquillamente schiacciarmi in un angolo e fingere che sia tutto normale, che sono da solo e che sto per portare due scatole al terzo piano e che non c'è nessuno con me, nessuno che ha ricevuto una chiamata, nessuno che ha sentito una vocina che le ha detto un giorno "Tu adesso sarai la mia sposa" o la mia serva, o la mia regina, nessuno che passi le giornate credendo nella vita eterna, nel paradiso e cose così. Questo ascensore invece è piccolo, a giudicare dall'ampiezza delle porte, capienza 4 persone, al massimo (borghiesia illuminata ma oculata nelle spese). E potrei correre il rischio di percepirne l'odore stantio e muffito di Mademoiselle Emmenthal(-er) e potrei persino rischiare un contatto incidentale che mi provocherebbe ustioni di terzo grado, secondo le ultime disposizioni in materia di peccato.

No, no. Il mio orgoglio di ex-chirichetto, ex-lupetto, ex-boyscout e di attuale miscredente mi obbliga alla fuga (gli americani la chiamano exit strategy). Fingo una premura altrimenti tollerabile, fisso anch'io lo stesso punto nel muro della suora ma con tutt'altro stato d'animo e dopo tre secondi netti, sbuffando, attacco la prima rampa di scale.
Infine, durante l'impervio sforzo di rapidità, causatomi dall'ansia di poterla eventualmente reincontrare al terzo piano e veder così crollare tutte le mie labili scuse sui tempi di consegna, spostando agilmente i cartoni su un solo braccio, con l'altra mano mi tasto in via precauzionale i gioielli.
Non si sa mai...

lunedì 18 ottobre 2010

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Spaghetti "Foyer"

Si chiamano così in onore di Eduardo De Filippo. La ricetta di base è la “Pasta alla saponara” che lui diceva essere il suo piatto preferito. Ho apportato diverse variazioni, praticamente è diventata un’altra cosa.

Si butta l’acqua con gli spaghetti. Io userei degli spaghetti grossi, i più grossi che trovate. Non i bucatini, però. Una libidine può essere usare sia gli spaghetti “normali” che quelli integrali, in egual misura. Aggiunge colore, che è sempre bello.

Gli spaghetti devono essere scolati al dente. Intanto snocciolate delle olive nere e delle olive verdi. Mescolatele (in una terrina capiente) con alcuni filetti di alici qualche foglia di basilico, pinoli, uno o due spicchi d’aglio tritati e olio d’oliva, versato man mano che mescolate.

Preparate del pan grattato. Ungete una pirofila da forno con l'olio d’oliva.

Buttate gli spaghetti insieme al compostone, unendo pure il pan grattato. Mettete tutto in pirofila e in forno, facendo in modo che in qualche minuto diventino croccantini. Tirate fuori e se necessario aggiungete un filo d’olio a crudo e una bella spolverata di prezzemolo.

Andate a teatro, preferibilmente per un’opera lirica.

domenica 17 ottobre 2010

Non è star sopra un albero: ebook collettivi e socialcose che si fanno senza carta

È il titolo di un intervento che faremo sabato 23 ottobre all'EAVIcamp di Modena, il primo barcamp modenese della storia, stando a quel che si dice. Tutta la giornata sarà incentrata sulla partecipazione, il cittadino, l'open source e via discorrendo. Noi parleremo, di nuovo, di come abbiam fatto per creare Schegge di Liberazione e Cronache di una sorte annunciata, e di come si può fare per fare queste cose che vengon bene anche senza l'ausilio della carta.

Insomma, se ci avete tempo e voglia, noi siam là, nell'aula a gradoni del Dipartimento di Fisica, dove l'ingegnere che vi scrive ha bruciato gli anni migliori della sua giovinezza sulle sudate carte, e dove sarà una soddisfazione inimmaginabile stare, per una volta nella vita, dalla parte potente della cattedra.

Come se non bastasse, seguirà un tumblr meetup di quelli da ricordare. Per info e prenotazioni, come si dice, citofonare blondeinside.

E niente, a presto.

sabato 16 ottobre 2010

Dilemma

"Siamo qui stasera per parlare con questo giovane scrittore, Ugo Cornia, che ha avuto i natali proprio nel nostro ospedale di Carpi per mano di un mago dell'ostetricia, e siamo qui per presentare le sue ultime fatiche: le Operette ipotetiche (che il nostro, giustamente, si è guardato bene dal chiamare ipotattiche) e il nuovissimo, fresco di stampa, Autobiografia della mia infanzia. Proprio in quest'ultimo libro, emerge la figura di un ragazzo cresciuto nella media borghesia modenese, con tutti gli agi e le coccole del caso, un ragazzo che potremmo definire un bravo ragazzo. Ecco, proprio questo è il dilemma, anzi, mi vien da pensare, l'incontro di stasera potrebbe intitolarsi Può un bravo ragazzo diventare un grande scrittore?"

(il vecchio malvissuto, ieri sera, alla Libreria Fenice di Carpi. Trascrizione più o meno fedele del sottoscritto)

giovedì 14 ottobre 2010

Biografie essenziali (speciale scienziati 5)

Paul Ehrenfest ebbe sempre bisogno di qualcuno nella sua vita e nel suo lavoro. Fece così anche quando decise di morire.

(di Peppe Liberti, fisico di riferimento)

Biografie essenziali (92)

Vincent Willem Van Gogh non suonava, non aveva orecchio. Però dipingeva, dipingeva come un matto.

mercoledì 13 ottobre 2010

Una malattia

Mio nonno è milanista, lo è sempre stato. Mio padre è juventino da una vita, da quando era piccolo, nonostante i continui tentativi di mio nonno per trascinarlo dalla sua parte. Son questioni di tifo, mi dice lui, non puoi mica ragionarci, è una brutta bestia, il tifo, una malattia.

Mio nonno mi racconta che una volta è andato allo stadio con mio padre per vedere Milan-Juventus, a Milano. Si son presi su con la macchina da Novi di Modena a San Siro, loro due, padre e figlio, in una di quelle giornate che sono importantissime per i legami padre e figlio, almeno così dicono i pedagoghi.

Mi dice mio nonno che per farlo contento, per far contento mio padre, suo figlio, erano andati a sedersi nella curva della Juve anche se lui era milanista. Ma era la fine degli anni ‘50, racconta, cosa vuoi che gliene fregasse ai tifosi juventini se c’era un milanista in mezzo a loro, si doveva guardare la partita e buona lì. Si faceva il tifo.

Allora si son seduti, mio nonno e mio padre, padre e figlio, e si son messi a guardare la partita.

Quasi subito il Milan ha fatto un gol. Mio nonno racconta che si è alzato dal seggiolino di scatto con le mani alzate, i gomiti a novanta gradi, le gambe un po’ piegate, ha fatto un saltino e ha detto forte, non gridato, ha detto forte: GOL!

Si son girati tutti.

L’han guardato male per qualche secondo, qualche secondo silenziosissimo dove mio nonno mi dice che sentiva il suo respiro. Allora si è seduto, senza fiatare, con i palmi delle mani in avanti e la testa che scuoteva un po’ come a dire Scusate. Ma è rimasto lì, di fianco a mio padre, suo figlio, e han continuato a guardare la partita. Zittissimi.

E poi il Milan ha fatto un altro gol. E allora mio nonno, senza rendersi conto, senza pensarci, si è alzato un po’ dal seggiolino, ha battuto le mani una volta, un solo clap, e ha detto, neanche forte, stavolta, ha detto normalmente: ALÉ!

Si son girati tutti, ancora.

L’han guardato male e in silenzio per qualche secondo. Uno, da dietro, gli ha picchiato una mano sulla spalla e gli ha detto Signore, adesso lei si siede e ci fa il favore di tacere per tutta la partita.

Va bene, ha risposto mio nonno, con le mani avanti e scuotendo la testa come a dire Scusate di nuovo e scusi anche lei. Ed è rimasto lì, di fianco a mio padre, suo figlio, e han continuato a guardare la partita. Zittissimi. Ancor di più di prima.

Mio nonno racconta che era poi finita quattro a zero per il Milan, la partita, e lui per gli altri due gol aveva esultato tantissimo ma dentro di sé, nella pancia, provando anche a rimanere serio e impassibile, con gli angoli della bocca che un po’ ridevano, ma senza farsi vedere. Guardava sempre avanti, guardava il campo.

Era contentissimo, mi dice, che vittoria, mi dice.

Però era poi l’ultima volta che andavo allo stadio, mi dice anche, ché lui da giovane aveva sparato con delle mitragliatrici e non era mica uno che aveva paura della gente, per capirci, ma lo stadio gli sembrava che stesse diventando proprio un brutto ambiente.

Veh Jules, mi racconta di aver detto a mio padre juventino, che era un bambino e che si chiama Jules, Veh Jules, ha detto a suo figlio mentre tornavano in macchina da San Siro a Novi di Modena, è poi la prima e l’ultima volta che veniamo allo stadio, che non mi è mica piaciuto, anche se abbiamo vinto, anche se il Milan ha fatto una gran bella partita, mi sembra che sia proprio una brutta bestia, questa cosa, come la chiamate voi, il tifo. Una malattia.

E deve essere per quel motivo lì, per non farmi ammalare, che a otto anni, quando giocavo a pallone con gli amici nella via, e tenevo la Fiorentina e il Napoli, che un giorno d'estate loro due, mio nonno e mio padre, padre e figlio, mi han dato una bici da corsa e dei vestiti attillati, mi han messo a sedere sulla sella e mi han detto: pedala, Marco, pedala, che è meglio.

martedì 12 ottobre 2010

Fantasie di un magazziniere: piccoli episodi di una vita lavorativa senza www

(nuova rubrica)

Furgone del 1973, cambio al volante, impianto a GPL e sterzo inesistente, come le petroliere.
Smiccato la macchina di un amico nel tentativo di parcheggiare di punta.
Muro scrostato e fotocellula del cancello automatico distrutta nel tentativo d'entrata.
Assunto da meno di una settimana.

Avrei voluto tantissimo twitterare a tutta l'azienda le mie scuse.

lunedì 11 ottobre 2010

A tavola con Tiziano Fiorveluti: Rigatoni “prima del letargo”

(nuova rubrica)

Intanto occorre dire che questa ricetta va servita in ciotole di coccio, non nei piatti normali. Il perché lo capirete da soli durante lo svolgimento, spero.

Dovete comprare del formaggio bavarese a fette. Va bene anche l’emmenthal, il tilsiter, l’edamer, il gouda, quello che volete. L’importante è farselo affettare dal droghiere come se fosse prosciutto. Vi fate affettare anche del prosciutto cotto. Quanto? Dipende, io non mi metto mica lì a dare dosi. Ognuno segua la propria indole dopo la lettura e si faccia i suoi calcoli.

Lessate delle patate. Una a testa, così mi contraddico subito. Tenetele lì. Lessatele oltremisura che si dovranno sfarinare.

Scaldate l’olio in padella con uno o due spicchi d’aglio interi. Aggiungete il prosciutto cotto fatto a listarelle e la salsa di pomodoro. Intanto avete messo su l’acqua per i rigatoni, spero. Spero anche di non dover spiegare come si butta la pasta e quando. Comunque, quando la salsa di pomodoro è quasi pronta ci buttate dentro le patate e mescolate mentre si riscalda.

Oliate le ciotole di coccio. Stendete le fette di formaggio dentro alle ciotole di coccio. Dovete “foderarle” di formaggio, se capite cosa intendo.

Quando cuoce la pasta buttatela nel padellone del sugo. Oliate di fresco e mettete il tutto dentro le ciotole di coccio. Coprite con altro formaggio. Riscaldate in forno per 2 minuti.

È un piatto pesantissimo, ma dopo dovrete andare in letargo e non mangerete per mesi, quindi...

sabato 9 ottobre 2010

Sarà il gioco di Caborca

Da un po' di tempo, ogni tanto, vado a correre su per il portico di San Luca.
Oggi ho provato a farlo due volte.
Alla seconda volta, quando ero in cima, mi è apparso Elvis.

venerdì 8 ottobre 2010

Un gioco 2.0 - Restringiamo il campo - E Nick Cave è un gruppo

Provate a dire il nome di un cantante che, dopo aver fatto parte di un gruppo "importante" per la storia del rock, con la propria carriera solista abbia superato le cose che ha fatto col gruppo.
Penso che Nick Cave non valga.
Perché ritengo che Nick Cave non abbia mai fatto davvero il solista, perché lui è un gruppo, ovvero Nick Cave and The Bad Seeds, che secondo me è un gruppo, appunto, non è Nick Cave solista.

giovedì 7 ottobre 2010

Un gioco

Provate a dire il nome di un cantante che con la propria carriera solista ha superato, no, anzi, ha eguagliato, no, anzi, è anche solo andato molto vicino ad eguagliare le cose che ha fatto col proprio gruppo.
Ah, che non sia Lou Reed.
E non so se Nick Cave valga (parliamone), perché Nick Cave è Nick Cave and The Bad Seeds.

Biografie essenziali (91)

William Shakespeare durante gli "anni perduti" (1585-1592) è stato l'araldo di Galactus. Dopo ci son stati Norrin Radd, Gabriel Lann, Pyreus Kril, Tyros di Landlak, Frankie Raye, Morg e Red Shift.

mercoledì 6 ottobre 2010

Biografie essenziali (90 bis)

Japoco Carrucci, detto il Pontormo, viveva in una stanza rialzata e ci si poteva entrare solo dalla finestra usando una scala. E lui, ogni volta che vedeva Giorgio Vasari, truc, la nascondeva.

Biografie essenziali (90)

Giorgio Vasari era così invidioso che quando scriveva le biografie di gente più brava di lui, diceva sempre che erano degl'immorali, degli eretici, dei misantropi.

martedì 5 ottobre 2010

Natio borgo selvaggio

Visto che il paesello dal quale provengo è saltato improvvisamente nelle prime pagine dei giornali e nei tiggì nazionali, e addirittura oggi pomeriggio un gruppetto di inviati da Pomeriggio Italia si è insediato nella piazza, che è un parcheggio, cercando un po' di pubblico per la trasmissione e ricevendo in risposta un po' da tutti Ci abbiamo da andare a lavorare, scrivo di seguito alcune informazioni poco conosciute sul comune da cui provengo:

Uno. Si chiama così perché, mi han sempre detto fin dalle elementari, un giorno è passato Attila coi suoi Unni, che erano tanti, e ha deciso, così dal nulla, per un colpo di testa o per la noia, vai a saperlo, di lasciare in piedi solo nove case e in vita solo nove persone, non ci è dato sapere se uomini o donne.

Due. Lì è stata inventata la scala a scomparsa, quella che vien giù dal soffitto e porta, spesso, nelle mansarde, specie nelle mansarde dei film dell'orrore o dei thriller che vanno di moda in questi anni.

Tre. C'è una lapide alla memoria di Francisco Ferrer y Guardia, il Montessori dell'anarchismo, sulla facciata del comune, anche se nessuno sa bene il perché. Di fianco c'è una lapide alla memoria di Giuseppe Verdi che, per quanto ne sappiamo, non è mai passato da quelle parti. Si vede che gli stavano simpatici.

Quattro. C'è una via maledetta dove muoiono tutti, compresa la donna che è stata ammazzata di botte dal marito in questi giorni, e dove da quando son piccolo ho sentito, nell'ordine: di una donna buttarsi dalla finestra per lo stress di aver cresciuto da sola due figli disabili e gemelli, anche se, non si è mai ben capito, forse sono stati loro, i gemelli, a buttarla giù; di un cinese impiccarsi al termosifone che, mi dicono, non è un modo così raro di ammazzarsi, anche se, secondo me, è difficile; di un accoltellamento, ma non ricordo altro; di un tizio che si è tirato una rivoltellata in testa; di un altro paio di morti ammazzati che adesso mi sfuggono. È un numero di morti abbastanza alto, dicono, statisticamente parlando, per una via sola in un paesello di meno di diecimila persone. Pare che sia partito tutto da quando uno, nel '45, in quei due o tre giorni di anarchia dopo la Liberazione, ha accoppato un banchiere piantandogli uno sprocco nella schiena. Quel tizio lì, quello che ha iniziato la maledizione nella via maledetta, l'uccisore, mi han detto ieri, era un mio parente.

Cinque. Sprocco vuol dire uncino.

lunedì 4 ottobre 2010

Il senso del pudore in Ugo Cornia

(il vecchio malvissuto rimane privo di account funzionante. Adesso sistemiamo. Intanto pubblico un suo pezzo giuntomi testé via mail e che mi vien presentato così: Caro Marco, ti mando, se mai serva a Barabba, un articolino ispiratomi dalla lettura dell'ultima fatica del noto autore di cui all'oggetto della presente. L'ho inviato anche a baugong (così lo chiama sua moglie, cioè bagonghi, un pagliaccio lombardo) che altri non è che Davide il mio primogenito "nel quale mi sono compiaciuto" come dice la Bibbia. Saluti e un baciotto alla Caterina. Il vecchio malvissuto, canuto e più che mai vituperoso.)

Queste Operine di Cornia (perché mai chiamarle Operette: in esse non v’è traccia di procedimenti mimetici, di dialoghi o di “contrasti” che si svolgano se non dentro se medesimo) comunicano un diletto pulsante di commozione simile a quello con il quale, più di dieci anni fa, i lettori salutarono il suo primo “dramma” intitolato Sulla felicità a oltranza. Non è vero, come molti dicono, che per un autor giovine sia tanto difficile irrobustire il passo dopo la prima fortunata opera, qui siamo già alla settima o giù di lì e la gagliardìa degli inizi continua a sciogliere i suoi muscoli.
Personalmente al tempo dei suoi esordi (anno 1999) godetti altresì di due gioiuzze, effetti campanilistici collaterali di una immedicata paesanità. 1. Che Ugo Cornia, così modenese nell’epigastrico e nell’immaginario, aveva visto la luce all’ospedale di Carpi, non so se con oppure senza taglio cesareo, per le cure ideo-ginecologiche di un vero mago dell’ostetricia. 2. Che Cornia andava pubblicando pe’ tipi della Sellerio dove un mio fratello carissimo forse carnale, ma diciamo morganatico, aveva per anni inviato certi suoi romanzi che quella casa editrice non potette giungere a pubblicare, diceva lui, a causa della sopravvenuta defunzione di Leonardo Sciascia che molto ne aveva ammirato gli scritti (lui ancora diceva) ma che aveva altro a cui pensare ristretto com’era tra minacce della mafia e polemiche sull’antimafia.
C’era poi la ragione principe. Che Cornia ha suppergiù l’età dei miei due figli maschi, nati nello stesso nosocomio Ramazzini, celebrante il medesimo primario la cui fama volava, e ancora trascorre nel ricordo popolare, ben oltre la marca mutinense. Il quale luminare della scienza medica (guarda un po’ dove vanno talvolta a nascondersi gli ùzzoli letterari!) era primo cugino di un suoceretto, il mio più amato.
Per farla breve, mai la disordinata passionaccia del sottoscritto per la lettura di libri scritti in buon italiano si era trovata materialmente ad intrecciarsi, sia pure per via di corrispondenze parentali poco-poco significative e di prossemiche generazionali, con l’opera e la persona di un narratore autentico, gloriosamente autoreferenziale (ah, la cruna dell’ego! potrebbe sentenziare qualche catubone locale) qual è il nostro Cornia.
Egli incarna la figura, abbastanza inedita nel panorama delle patrie lettere, dell’ingegnoso farabulàn. (T’ì propria un farabulàn! Così si opponeva da giovanetti la madre alle nostre fantasiose proteste di innocenza dopo una birbonata, ma sorrideva tra sé divertita, quasi compiaciuta, l’adorata mentitrice!). Non si sa se questo termine sia in uso sotto la Ghirlandina, terra etrusca su fondali stendahliani. Qui da noi che ci vantiamo di ascendenze bizantine significa “parabolàno” cioè narratore di fatti anche immaginari ma realistici: da parabola, nell’accezione antica, persino evangelica, di parola.
Racconti, per l’appunto, ipotetici (mai ipotattici, ohibò, sarebbero indegni di un rigoroso fluttuatore dei propri moti di coscienza) come la sparizione di piazza Grande e “in un attimo vrum” dell’intera Modena; e il materializzarsi di un cubo d’oro massiccio un metro per un metro di spigolo, e il padre morto che torna a casa per mingere col figlio in compagnia, una delle sue visioni più poetiche (dico sul serio, orfano di padre da più di mezzo secolo ho avuto anch’io apparizioni analoghe ma ne attribuivo tutto il merito al lambrusco). Un Bukowski senza fini anticonformistici ed eversivi che va sotto braccio dell’irlandese Berkeley col suo esse est percipi e l’allegro chiasmo (o endìadi?) di una doppia contraddizione, con buona pace di chi ci governa e amerebbe che ci sembrasse non vero quel che qui non c’è o viene sistematicamente distrutto. Ma Cornia non sembra voler premere il tasto dell’impegno sociopolitico e nemmeno del sacrosanto diritto di ognuno agli eccessi libatorii (per legittima difesa dalle incivili norme imperanti contro gli heiliger Trinker, i santi bevitori).
Lo affascina piuttosto, per esempio, tutto ciò che Gianni Brera chiamava il corpo della ragassa. L’espressione includeva ovviamente anche le femmine, compresi certi loro ingannevoli sguardi. Ma (e qui sta la rinnovata scioltezza - basta con la leggerezza calviniana! - sul piano esistenziale suo, e su quello della narrazione che riguarda noi lettori) questo avviene senza ossessioni: l’autore non mostra certo smodata pesanza quando descrive i suoi stupori e trasalimenti e tanto meno se adopera locuzioni e modi espliciti per significare (e forse indicare a più acerbi aspiranti scribi) le proprie immaginazioni fantasmatiche. Semplicemente comunica il suo mondo di scrittore sano in una società malata. La pudicizia, il sentimento di riservatezza di Cornia, nota presente in tutti i suoi libri, si dilata qui nel linguaggio esplicito su Dio, sui miracoli (ai quali dedica ben quattro capitoletti) e sui (grazie ai) propri sogni. (Non ho mai dimenticato la premessa a un affannato, gioioso racconto che mi fece una mia figliola quand’era fanciulletta: Non ricordo, babbo, se l’ho visto o se l’ho sognato).
Le Operette segnano forse, se si può azzardare l’ipotesi, un’accentuarsi di spiritualità, con la tendenza a riflettersi, o meglio a confessare tutto del proprio mondo tranne che se stesso. Nessun vero poeta, anche volendolo, è mai riuscito a farlo, per fortuna. Tranquilli, adunque. Soprattutto circa l’insinuazione che qualcuno ha sussurrato in questi giorni all’orecchio dello scrivente: Non hai la sensazione che Ugo Cornia si sia messo sulla strada della conversione? Non modenesus erit cui non fantastica testa: il giudizio che in risposta viene in mente, citazione (un po’ abusata, invero) dal poema maccheronico del mantovano Merlin Cocai costituisce una garanzia. Il Folengo voleva probabilmente lanciare una frecciata contro i modenesi, ma quel “fantastica” oggi non significa più soltanto balzana o strampalata, e in ogni caso suonerebbe come una lode.
(Ugo Cornia, “Operette ipotetiche”, Ed. Quodlibet Compagnia Extra, Macerata, pagg. 115, 12 euro)

domenica 3 ottobre 2010

Scuola elementare di scrittura emiliana

"Care democratiche e cari democratici, cittadini che avete raccolto il nostro invito, amici, compagni credo sarete d'accordo con me nel dire che questa è davvero una bella manifestazione. Spero di non rovinarla io adesso, ma fin qui è stata molto bella."

(Pier Luigi Bersani, Per la crescita, per l'equità, per il lavoro, opuscolo distribuito alla Festa del PD di Modena, Incipit, pag. 5)

sabato 2 ottobre 2010

Barabba e burattini

(il vecchio malvissuto ha l'account che non funziona. Adesso glene facciamo un altro. Intanto pubblico una sua conversazione telefonica uscita sul numero di aprile del 1979 – avevo due mesi di vita, io, all'epoca – di Dentro e Fuori, mensile ciclostilato carpense a cura della compagnia "baracca e burattini")

«Ho letto, anzi leggiucchiato con un certo interesse quanto hai scritto sul burattino... non vorrai ripercorrere il mio cammino verso la musica?»
«Inteso, il cammino, come "superamento" del teatro (burattinesco o no) di prosa?»
«Ma di quale prosa vai cianciando... Io, la prosa, non ho mai dovuto superarla, semplicemente perché non l'ho mai fatta. Mi sono solo e sempre affidato alla mia menzogna, alla singolare armoniosità del mio corpo, alla mobilità del mio volto, all'incredibilmente ampia estensione della mia voce... Il colore che è in me (che è me) ha invaso i palcoscenici, ha dato luce e anima ai miei films, è stato da me delegato a scandire i tempi delle mie sacre rappresentazioni...»
«Nei burattini e nel teatrino della nostra compagnia il colore è una componente primaria, ma il problema che stiamo affrontando in questi giorni, e che ci assilla, è quello della dizione, il problema delle voci differenziate, il problema delle parti...»
«Ti do un consiglio. Elimina questo che è un falso problema. Le "parti"... Le "parti" non esistono...»
«Lo dici tu. I burattini hanno, ognuno, un'anima...»
«Non costringermi, con le tue interruzioni, a salire sulla cattedra (che mi compete) del maestro, del pedagogo. Rifletti su quella scaglia di vero che c'è in quanto ho frettolosamente letto sulla tua pubblicazione...»
«Una pubblicazione per modo di dire...»
«... nella quale ho intravisto l'inizio, l'avvio di un'ode alla menzogna. Questa ode mi ha incuriosito. Con una punta di legittimo orgoglio ho avuto la conferma che il mio ventennale apostolato al servizio della falsità...»
«... vorrai dire della "finzione"»
«... della falsità, ripeto, ha prodotto un'eco, seppure nella più sperduta delle province italiane. Il tuo programma di burattinare non dialetticamente mi incuriosisce e mi trova, con mille dubbi e riserve, sostanzialmente consenziente. Anche il proposito di non effettizzare e spettacolare (dal verbo) può essere guardato con magnanimità. Purché il trionfo del bello sia immediato e esplicito, esplodente e imperante fino in fondo. La doppiezza del burattinaio eliminerà il falso problema delle differenziazioni, dei tramiti; i personaggi, già uccisi da me fin dall'inizio della mia riforma, saranno (se proprio lo vuoi) riflessi e riverberi di una luce nascosta, di un vulcano inquieto e mormorante da sotto. Agiteremo e terrorizzeremo, da limini inconosciuti, pubblici intonsi, non ancora immalinconiti dal teatro. Potremmo anche (ah, ah, ah!) intraprendere il compito dell'educazione delle masse al suono non melodico, non armonico... alla musica!»
«È una proposta di collaborazione?»
«Non contarci.»

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Abbiamo riportato sopra alcune parti, sintetizzate e non precisamente testuali, di uno strano colloquio telefonico con C. Bene, messosi in contatto con noi dopo aver ricevuti i primi due numeri di
Dentro e Fuori.