martedì 15 giugno 2010

Case d'Altri: aromi e gradini

Appena si apre la porta sulla sinistra compare una gigantesca stampa di Kandinskij. Una di quelle del periodo più famoso, quello con i triangoli scaleni rossi e blu, le righe giallo ocra e i cerchi verdi. Salgo due piani di scale in pietra bianca dura, forse è marmo ma non sembra sforzarsi per esserlo. Mentre passo il primo piano un corridoio si apre sul lato destro verso studi di avvocati, consulenti, uffici vari. Giunto al secondo una porta grande e regolare, che mi ricorda le scale, si apre e intravedo subito una fila di mensole e su quelle mensole centinaia di libri. C., la padrona di casa, mi chiama verso l’interno, vagamente alla mia destra.

La porta si apre su un ingresso perpendicolare alla porta, i libri un po’ incastonati, un po’ appoggiati, alcuni di sicuro buttati, m’indicano la direzione. Una luce più chiara mi richiama verso il soggiorno, ha le finestre che danno sul viale, a quest’ora si tinge dell’azzurro scuro che precede il tramonto. Attenzione, tre gradini di legno in discesa m’introducono al soggiorno. È tutto bianco e marrone scuro: due divani bianchi, un tavolo marrone in angolo, due finestre alte e bianche, tra le finestre una mensola marrone colma di cd, vicino alla finestra una pila di Espresso che ha raggiunto il metro di altezza. Di fronte ai gradini che ho lasciato c’è una scala scoperta senza ringhiera che s’inerpica quadrata e stretta verso il secondo piano. C. mi richiama di nuovo, consapevole delle incertezze che un ospite abituato a case regolari può avere. Volto di nuovo a destra, passo la cucina, tutta bianca, che è divisa in due lati, lato fornelli e tavolino e lato lavello e lavastoviglie. Qui altri tre gradini, stavolta in salita, mi portano verso una portafinestra che si apre su una terrazza ampia e rossa di mattoni. C. mi aspetta, indaffarata intorno al tavolo da esterni. L’accordo era: lei gli stuzzichini, io le birre ucraine (e forse cecoslovacche). Le birre sono ancora fresche; per semplificare la vita al cliente hanno stampigliato sull’etichetta grossi numeri, ad ogni numero corrisponde una qualità o una gradazione. C. invece ha pensato a dei taralli e ha preparato bocconcini di pollo fritto e prosciutto tagliato a dadini.

C. è una giovane Carpigiana ma vanta antenati e carnagione pugliesi. Riccia, castana rossiccia, occhi castano chiari quasi verdi, minuta, affronta i gradini di casa propria come chi ha fatto danza classica, o ha visto troppi film di Charlie Chaplin. Gira su una bici da corsa forse con più anni di lei con un piglio da velocista. Non l’ho mai vista indossare scarpe col tacco e nemmeno vestiti troppo complicati. Non si separa mai da un piccolo borsello di cuoio che miracolosamente contiene tutto ciò di cui ha bisogno. Con un amica sta per partire per un lungo viaggio, sta per attraversare un bel po’ di Asia via terra, in treno, spera di cavarne fuori materiale per un progetto o un reportage che la catapulti nel mondo della fotografia professionale o che le permetta di unire due grandissime passioni della sua vita: la fotografia e il viaggio (Questa parentesi che state leggendo è uno spazio promozionale, in futuro conterrà il collegamento al blog che C. deve ancora creare per darci piccole anticipazioni di ciò che vedranno, toccheranno, sentiranno le nostre eroine - eccolo: http://tuttigiuviaterra.wordpress.com/). Ovviamente tutti tifiamo per lei. Io sicuro che sì.

La terrazza, chiusa dai muri per due lati, lungo i lati rimanenti è circondata da una ringhiera nascosta dietro edere rampicanti e piante in vasi alti. C. dice che in questi giorni alla sera passa il tempo ad affacciarsi in soggiorno per sentire l’odore dei tigli e poi corre, salta i gradini, arriva in terrazza per sentire il gelsomino che, attanagliato al muro, apre i fiori bianchi e gialli e poi corre di nuovo, scende i gradini, passa in soggiorno e rispunta alla finestra per sentire i tigli. Così. Avanti e indietro. Non so dire quante volte.

Io e C. alle spalle abbiamo una piccola sciagura professionale che lei rimembra a volte chiamandomi ironicamente “Capo”, viviamo nella stessa città, frequentiamo quasi gli stessi posti e abbiamo fatto esperienze molto simili (Carpi non è Bologna, è un paesotto con l’arroganza di una piccola città) ma mai identiche. I nostri mondi si sono intersecati ma mai incrociati veramente e ora che entrambi cerchiamo d’imprimere una direzione al nostro futuro, ci siamo ritrovati molto vicini.
La passione di C. per il viaggio è una linea di basso continua che accompagna tutte le nostre conversazioni. A volte esplode in picchi elettrificati: “Sì, come quella volta che ero in Burkina Faso…” “Cose del genere in Vietnam non le puoi nemmeno pensare” che mi lasciano un po’ stravolto e affascinato. A volte assume toni poetici ma con tratti di urgenza e reclamo: “Io divento zingara, quando viaggio divento zingara, basta che vado a guardarmi in uno specchio e vedo che i miei occhi diventano più grandi”. Le voci di Battiato e Luci della Centrale Elettrica girano per casa mentre immaginiamo e disfiamo continuamente progetti creativi. Il buio si tinge di arancione e il campanile della chiesa di fronte, che appena s’intravede, si accende di stelline bianche elettriche. Per un attimo mi credo ad Istanbul, gli stessi odori e la stessa luce, la chiesa tramutata in minareto, attendo che da qualche altoparlante cominci l’ultima preghiera della giornata.
Poi ritorno mentre C. inizia ad innaffiare. Alcune pianticelle, specie quelle da cucina, le sono state regalate e sono in vasi piccoli. L’origano se la cava bene. Il basilico me lo prendo in mano ma è veramente giù, ha solo qualche fogliolina marrone, forse un po’ di ombra oltre all’acqua lo riporteranno tra noi. La menta invece, appena C. le passa sopra il getto, risponde felice e butta intorno il suo aroma. Sembra un cucciolo che ha appena ricevuto una carezza in più. Chiamano C. al telefono, la lascio sola e ne approfitto per tornare in soggiorno. Tra le finestre, al centro sopra la pila di cd, c'è un piccolo quadretto con una foto in bianco e nero: Jean Reno e Natalie Portman in una scena di Léon, il film di Luc Besson.
Chi era?
L’uomo della mia vita
Tuo padre?
Sì, mi chiama sempre quando ho bisogno di coraggio”.

1 commento:

  1. come dice quel vecchio saggio dello Squonk: casa è qualcosa di più e di diverso dal posto dove si abita, casa siamo noi.

    http://www.blogsquonk.it/?p=4101

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