mercoledì 30 giugno 2010

Questo scrittore serissimo

Questo scrittore serissimo, ieri, presentava un libro serissimo in riva al Po. Mentre parlava, e la presentatrice gli faceva delle domande, e lui rispondeva, c'erano degli insetti inqualificabili che gli ronzavano intorno, sulla testa e su per la schiena. Lui, ogni tanto, si alzava di scatto e diceva: Che cos'è? Che animale è? Uno scarabeo?

Questo scrittore serissimo, ieri, teneva il palco, come si dice, molto bene, come se fosse il suo ambiente naturale. Quando leggeva, aveva un accento quasi parmense, o parmigiano, fate voi. È strano, pensavamo noi seduti a un tavolo, perché questo scrittore serissimo viene dal sud, e lì eravamo al nord, in riva al Po. Quando glielo abbiamo fatto notare, lui ci ha detto che se l'Emilia non avesse Piacenza, che è l'inizio dell'Emilia, e se Piacenza non esistesse proprio, l'Emilia potrebbe non iniziare mai, potrebbe anzi arrivare tranquillamente fino a casa sua, un po' più a ovest, un po' più a sud.

Questo scrittore serissimo, ieri, non ha letto le sue cose, ma quelle del libro serissimo. Lui però, lo sappiamo, scrive molto bene, anche se una volta, dice, faceva il banchiere, o il bancario, fate voi, e non era una vita tutta fiorellini come lui si pensava. In mezzo alla presentazione del libro serissimo, a un certo punto, ha interrotto la lettura e ha detto: Io faccio l'assicuratore. Noi, serissimi, che eravamo in un tavolo abbastanza letterato, letterato nel senso delle lauree in lettere sedute lì a mangiare, abbiam subito pensato: Be', dai, da Svevo a Kafka. È un bel salto di qualità.

martedì 29 giugno 2010

Son fatto così (2)

Son fatto che quando un gruppo di persone, amici, spesso, finisce per vedersi quasi sempre, o organizzare delle serate insieme, che son cose naturali, son processi automatici, a volte, penso, anche giusti, credo, ma quando un gruppo di persone o di amici finisce per vedersi quasi sempre, dicevo, e da lontano sembra che stiano formando uno di quegli agglomerati che, i più, chiaman "compagnia", quando succede, e mi ci trovo in mezzo, io, di solito, scappo. Proprio scappo. Son fatto così.

Son fatto così

Son fatto che non c'è una persona, al mondo, ma neanche una, e ci penso, delle volte, e la cerco, quella persona, ma non la trovo, neanche una, non c'è, dicevo, non c'è una persona, al mondo, a cui io non abbia mai mentito. Non c'è. Son fatto così.

domenica 27 giugno 2010

Siamo una società orribile (4)

E mi era venuto in mente un mio amico, che fa il musicista, che tempo prima mi aveva detto che lui avrebbe voluto fare un referendum contro la musica di sottofondo, e in quei giorni avevo pensato che quel referendum, che fino ad allora mi era sembrata una cosa simpatica e un po' strampalata, sarebbe stato, se fosse passato, un cambiamento rivoluzionario.

(Paolo Nori, I malcontenti)
Vorrei che tornaste ad assaporare il silenzio e il rumore di fondo della vita, le scarpe sul porfido e sul pavimento, tra i banchi, i mugugnii della gente, i saluti, gli oggetti che si accatastano nelle sporte, le ruote delle biciclette e i campanelli, spòstati, devo passare. Maledetto quel popolo che ha bisogno della filodiffusione sotto i portici, o delle canzonette in voga, mentre fa la spesa.

giovedì 24 giugno 2010

Italia - Cecoslovacchia

L'altra sera c'era questo ex partigiano emigrato clandestinamente in Cecoslovacchia che diceva che l'avevano mandato alla scuola di partito, a Praga. Gli insegnavano la storia del marxismo, la storia del movimento operaio, la storia dell'internazionalismo, la storia del socialismo, la storia del Partito Comunista e la storia dell'Unione Sovietica. E doveva sempre studiare un bel po', senza stringere dei gran rapporti coi cecoslovacchi e neanche coi suoi compagni di corso, perché la clandestinità ha le sue regole.

Un giorno, raccontava, era lì seduto sotto un albero, in un parco, e leggeva le dispense che gli avevano dato alla scuola di partito. A un certo punto viene avvicinato da un insegnante, uno di quelli più importanti, uno di quelli che incutevano timore solo a guardarli da lontano. Vien lì, l'insegnante, si siede di fianco a lui, lo guarda un po' studiare poi gli chiede: Te, dimmi, cosa ci vedi in quelle pagine?

Se devo essere proprio sincero, ha risposto l'ex partigiano emigrato clandestinamente, se devo essere proprio sincero, io, lì, in quelle pagine, ci vedo una donna nuda.


(*)

mercoledì 23 giugno 2010

Se crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità

Gene Roddenberry, nell’ultimo paragrafo dell’epilogo de La fisica di Star Trek (Lawrence M. Krauss, collana La lente di Galileo, traduzione di Libero Sosio, Longanesi & C., 1996), diceva:
«La specie umana è un organismo notevole, con un grande potenziale, e io spero che Star Trek abbia aiutato a mostrarci che cosa possiamo diventare se crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità»
Il mio tema sul Novecento finiva così. Era il 1998, l’anno dell’ultimo esame di maturità in sessantesimi. Ho preso "Buono".

martedì 22 giugno 2010

Biografie essenziali (59)

Nathaniel Hawthorne durante la sua vita tentò di salvarsi da una maledizione fuggendo da Salem con una "w". Non bastò.

Tema: Alla luna

Ero in terza media e mi piaceva la scienza. Avevo già iniziato a scrivere, scrivevo anche bene, così, senza falsa modestia, per l’età che avevo, ma mi piaceva la scienza. Avevo già letto Stephen Hawking e guardavo Star Trek come un credente infervorato ascolta l’omelia del prete in chiesa. Ero fatto così, mi piaceva la scienza ed ero anche bravino in matematica.

La prof di italiano non mi aveva in simpatia. Le rompeva un sacco dovermi dare dei voti alti nei temi e dei quattro o cinque all’orale perché non studiavo mai, ero sempre per la strada con gli amici, al pomeriggio, e in classe ero uno di quelli dell’ultimo banco che fan sempre del casino; lei mi metteva in punizione nel banco di fianco alla cattedra e io facevo del casino anche da lì. Mi odiava. Però anche lei aveva i suoi bei difetti, tipo che era burbera, cattiva e un po’ stronza. Me lo ricordo ancora, il suo nome. Me lo ricordo ma non lo scrivo.

Insomma, avevamo appena fatto Leopardi, e mi piaceva un bel po’, con tutte quelle sue teorie sull’Infinito, dentro e fuori, e il naufragar m’è dolce in questo mare era una frase che ammiravo molto. Ne avevamo fatte un bel po’, di poesie di Leopardi, e la prof d’italiano ci ha dato un tema in classe: “Alla luna: cosa pensi, tu, quando guardi la luna?”.

Eh, cosa penso, io? Mah. Mi son messo lì, nel banco di fianco alla cattedra in punizione, con la penna in mano e il foglio di brutta e pensavo pensavo pensavo.

Cosa penso, io, quando guardo la luna? Penso che è un satellite bellissimo, una palla bianca che gira gira gira ma noi vediamo sempre una faccia sola perché, guarda un po’, il suo periodo di rotazione è uguale a quello di rivoluzione: una cosa straordinaria, una coincidenza di quelle che ti fanno venire il mal di testa.

E così, con buona pace del buon Leopardi che, l’ho scritto anche nel tema, mi piace molto e forse è il mio poeta preferito, con buona pace del buon Leopardi, per me, scrivevo, la luna è un satellite bellissimo, con quella faccia bianca che sembra una faccia di una persona per via dei crateri che ci son sopra, una faccia col culo sempre al buio per la questione della rotazione e della rivoluzione che sono uguali. E noi ci siamo anche stati, là, sulla luna, così lontani, a un secondo luce dalla Terra – sapevo cos’era un secondo luce, a quattordici anni, per dire – degli uomini ci avevano messo i piedi e poi erano tornati indietro a raccontarlo; e mio padre mi dice sempre che quel giorno lì qualcosa era cambiato nella testa delle persone: dal giorno dopo che l’uomo era stato sulla luna, lo spazio aveva perso una specie di magia e l’umanità era diventata importantissima, come concetto. La luna, un satellite stupendo, ecco quel che pensavo quando la guardavo. Era un bel tema, secondo me. Un bel tema per un argomento interessantissimo.

Mica tanto, secondo la prof d’italiano. Mi ha guardato male, dopo averlo corretto. Non ci ho neanche messo il voto, mi ha detto. Adesso lo strappo in due e te, a casa, ne fai un altro spiegando cosa pensi quando guardi la luna. Non è possibile che guardando la luna non ti vengano in mente dei pensieri fantastici e metafisici o non ti capiti mai di parlarci, con la luna.

No, prof. Non ci parlo, è un essere inanimato.

Marco, sul serio, adesso te rifai questo tema, a casa. E così dicendo, arrabbiata, l’ha strappato. HA STRAPPATO IL MIO TEMA SULLA LUNA. Capite quanto era stronza? Lo capite, vero?

Niente, sono andato a casa e ho cominciato a scrivere delle cose del tipo O tu, Luna, come sei bella, quando ti guardo la sera penso a delle cose candide e ti chiedo spesso come sarà la vita, quaggiù, per me, quando mi sento tanto solo e son triste, eccetera eccetera. Ho scritto che parlavo con la luna, che la luna era bellissima e un prodigio del pensiero, era magica. Ho scritto alla luna dandole del tu, ed ero incazzatissimo, ma dovevo farlo per forza.

Poi, la mattina dopo, ho ridato il tema alla prof d’Italiano. Lei l’ha letto e il giorno dopo ancora me l’ha riportato con sopra scritto “Sufficiente”.

Sufficiente?

Sì, Marco, è un tema molto ben fatto, ma hai dovuto riscriverlo a casa e più di Sufficiente non posso dartelo. Però, vedi, che anche tu ci parli, con la luna?

Ci parlo un corno, volevo dirle, ma son rimasto zitto, che era meglio così.

Ho preso il mio Sufficiente, ho chiesto se potevo fare una fotocopia del tema per portarlo a casa, poi l’ho detto alla mamma. La mamma l'ha letto e mi ha detto Bravo. Era contenta. Bravo.

Ma bravo cosa? Le ho risposto. Bravo cosa? Che son tutte delle balle.

sabato 19 giugno 2010

Mamma mia dammi 100 Lini

Provo una grande gioia quando soave piombo
nella gola d'un uomo sfibrato dal lavoro;
perché il caldo petto è per me dolce tomba,
meglio che in fredda cantina là dimoro.
(Charles Baudelaire, L'anima del vino - da I fiori del male, universale economica Feltrinelli, 2003, pag. 225, traduzione di Antonio Prete)
La cantina Lini festeggia cento anni. Cento.
Stasera, noi barabbisti saremo a ubriacarci di vino, poesia e virtù, a piacer nostro, e faremo la solita figura degli intellettualoidi leggendo in pubblico, al ristorante Olimpia, tentennando, le peripezie e i ragionamenti di Mario Soldati, lo struggimento di ʿOmar Ḫayyām, le poesie meno baustelliane di Baudelaire, la battaglia del Cavaliere dalla Triste Figura contro gli otri nello scantinato del trentacinquesimo capitolo del Don Chisciotte, Rabelais, cose così. Se passate di lì, fermatevi e picchiate dolcemente il vostro calice col nostro.
Una, due, tre volte. Cento.

venerdì 18 giugno 2010

Matita

Quando mi trasferii da lei, in casa sua, cinque anni fa, era un pomeriggio torrido di Luglio. Avevo ventisei anni, le braghette corte e una maglietta sudata, uno zainetto rosso con un pigiama, un paio di ciabatte e un cambio di vestiti; il resto lo porto qui domani, pensavo. Avevo un libro in mano, uno solo, cartonato, copertina bianca, niente punti, solo virgole.

Quando mi trasferii da lei, in casa sua, cinque anni fa, avevo già letto molti libri, ma li lasciavo sempre intonsi, quando li finivo. Poi, quella sera, mi stesi sul letto, lei di fianco a me, ognuno con un libro in mano e il sorriso delle cose nuove a inebetirci il viso. Lei stringeva un Dostoevskij, non ricordo quale, io sfogliavo il mio libro bianco e cartonato senza punti; lei con una matita tra le dita, io a mani vuote. Perché non sottolinei niente? mi disse subito. Non sono abituato, le risposi, non l’ho mai fatto. Mi allungò la matita. Prova, dai. Ridacchiava.

José Saramago è morto, oggi, a casa sua, era vecchio. Noi conviviamo ancora, la casa è sempre quella, con lo stesso arredamento e una libreria in più. Il libro bianco e cartonato, senza punti, solo virgole, è ancora lì, nello scaffale del salotto, nello scomparto di Cervantes, Lope de Vega, Unamuno, gli spagnoli, i portoghesi e i sudamericani: son fatto così, catalogo, suddivido, raccolgo.

Se lo apri, Saggio sulla lucidità, ci sono delle righe a matita, dentro. Erano le prime righe a matita che segnavo su un libro. Non ho più smesso.

Pensieri in apnea: En plein air

Ventesima puntata

All'aperto. Cielo sgombro. Sole forte e pieno. L'aria drizza ancora i peli delle braccia, ma era proprio ora. Prima le docce, che per quanto passi il tempo uno non ci si abitua mai. Devono averci un ingegnere che giorno per giorno calcola la temperatura ottimale per intirizzire la gente. E poi l'acqua della vasca, fredda. L'unione di tutti questi elementi ti farebbe gridare di animalesco entusiasmo, se non fosse che prima di tutto vuoi nuotare.
I riflessi delle onde sul fondo della piscina sembrano strani rombi gialli in movimento oppure le sinapsi di un cervello liquido e perpetuo: la memoria dell'acqua. Il movimento delle mani a rana, quel doppio cerchio, visto sull'ombra del fondo diventa qualcosa di mistico, come aprirsi alla contemplazione del mondo.
Il dorso invece diventa finalmente lo stile più bello del mondo, devo ammetterlo. Mi tolgo pure gli occhialini, io, che odio il cloro e che rendo inutile qualsiasi collirio, pur di stare in faccia al mondo. A Tenerli, gli occhialini, in questi momenti, mi sembrerebbe di avere una maschera di plastica su tutta la faccia. Son così contento che faccio le bracciate del dorso in simultanea, come un calamaro o un cavatappi.
Così, tra rana e dorso, dimentico quasi lo stile libero. Lo impiego stupidamente solo quando voglio superare un egotico delfinante.
La vasca adesso è raddoppiata rispetto a quella interna. Ora è una vasca olimpionica, da quel che ho capito. Fosse per me, adesso, potrebbe andare avanti all'infinito. Mentre sono così, a dorso.
Oggi il mio nuoto è una danza. All'aperto.

giovedì 17 giugno 2010

La regola di sèint meter

ed Giuglìn Beltràm dit mèzabèrba

Per viver dimòndi bèin, bisògna aver tut a sèint meter
  1. la dòna (la muiéra, la murosa, la pratica, la sostituta)
  2. i fióó
  3. i amìg
  4. al vinèr
  5. l'ustarìa
  6. la Ciésa
  7. la butéga
  8. al furnèr
  9. al maslèr
  10. al pchèr
  11. al paltèin
  12. al cafè
  13. al dutór
  14. la farmacia
  15. l'uspidèl
  16. al ricòver
  17. al giurnalér
  18. la cumùna
  19. al mecànic da biciclétti
  20. al simitéri
tut còmed a sèint meter, ma minga più d'asvèin.

Cherp l'ott ed merz dal mìlenovsèintessantùn

PS: a Cherp ag srèvv anc un'ètra questioun: scanser al ràzi e i spacamaroun.

mercoledì 16 giugno 2010

Vuvuzela

Erano i giorni migliori della peggiore scuola italiana: le medie. Eravamo lì, seduti, giovani, svogliati, tutto il giorno; il professore… no, l’intero corpo insegnante era il nemico. Ma più di tutti, il nemico era la prof di Storia, quella che sembrava la chioccia del Robin Hood di Walt Disney, quella che ci divideva in gruppi per fare degli esempi sulla vita degli antichi romani e diceva Tu, Paolo, fai il patrizio, e tu, Alberto, fai il plebeo, e tu, invece, Marco, fai il servo della gleba. Stronza.

Bisognava rompere l’ordine costituito, ribellarsi, mandare a monte la lezione a ogni costo, a costo della nota sul registro. Si doveva radunare un manipolo di ribelli dagli ultimi banchi, spostarli al centro dell’aula, alcuni, e ai quattro lati della formazione, gli altri.

Allora cominciava qualcuno, con si bemolle dal centro, faceva: mmmmmmmh con la bocca chiusa, con la gola. Attaccava subito il vicino di banco: mmmmmmmh, sempre con la bocca chiusa, mmmmmmmh, con la gola. Poi tutto il manipolo centrale era mmmmmmmh e a quel punto i quattro lati si univano al coro: mmmmmmmh con la bocca chiusa anche loro, mmmmmmmh con la gola dagli angoli della classe.

Finché eravamo quasi tutti a fare mmmmmmmh con le bocche chiuse, con le gole, mmmmmmmh anche chi non era tra i prescelti per la rivoluzione, ma si faceva prendere dall’euforia ribelle del momento; mmmmmmmh e si rischiava di mandare in risonanza i vetri e il pavimento, mmmmmmmh e quella chioccia della prof di Storia, l’ordine costituito, non poteva mica farci la nota sul registro, non a tutti, non alla classe intera, mmmmmmmh era difficile, a regime, individuare il colpevole: tutti lì con la bocca chiusa, mmmmmmmh anche chi, ed erano pochi, non faceva mmmmmmmh con la gola, per la paura.

E niente, l’altro ieri accendo il televisore, guardo quei matti correre da una parte all’altra del campo verde, dietro una palla, poi ascolto meglio e lo sento, sento un si bemolle costante, esulto, madeleine!, rido, mi unisco al coro. Faccio mmmmmmmh sul letto, con la bocca chiusa, mmmmmmmh con la gola.

La signora mi chiede se sono diventato matto. No, le rispondo, mi sto ribellando. Mi sto ribellando all’ordine costituito. Stronzi.

martedì 15 giugno 2010

Case d'Altri: aromi e gradini

Appena si apre la porta sulla sinistra compare una gigantesca stampa di Kandinskij. Una di quelle del periodo più famoso, quello con i triangoli scaleni rossi e blu, le righe giallo ocra e i cerchi verdi. Salgo due piani di scale in pietra bianca dura, forse è marmo ma non sembra sforzarsi per esserlo. Mentre passo il primo piano un corridoio si apre sul lato destro verso studi di avvocati, consulenti, uffici vari. Giunto al secondo una porta grande e regolare, che mi ricorda le scale, si apre e intravedo subito una fila di mensole e su quelle mensole centinaia di libri. C., la padrona di casa, mi chiama verso l’interno, vagamente alla mia destra.

La porta si apre su un ingresso perpendicolare alla porta, i libri un po’ incastonati, un po’ appoggiati, alcuni di sicuro buttati, m’indicano la direzione. Una luce più chiara mi richiama verso il soggiorno, ha le finestre che danno sul viale, a quest’ora si tinge dell’azzurro scuro che precede il tramonto. Attenzione, tre gradini di legno in discesa m’introducono al soggiorno. È tutto bianco e marrone scuro: due divani bianchi, un tavolo marrone in angolo, due finestre alte e bianche, tra le finestre una mensola marrone colma di cd, vicino alla finestra una pila di Espresso che ha raggiunto il metro di altezza. Di fronte ai gradini che ho lasciato c’è una scala scoperta senza ringhiera che s’inerpica quadrata e stretta verso il secondo piano. C. mi richiama di nuovo, consapevole delle incertezze che un ospite abituato a case regolari può avere. Volto di nuovo a destra, passo la cucina, tutta bianca, che è divisa in due lati, lato fornelli e tavolino e lato lavello e lavastoviglie. Qui altri tre gradini, stavolta in salita, mi portano verso una portafinestra che si apre su una terrazza ampia e rossa di mattoni. C. mi aspetta, indaffarata intorno al tavolo da esterni. L’accordo era: lei gli stuzzichini, io le birre ucraine (e forse cecoslovacche). Le birre sono ancora fresche; per semplificare la vita al cliente hanno stampigliato sull’etichetta grossi numeri, ad ogni numero corrisponde una qualità o una gradazione. C. invece ha pensato a dei taralli e ha preparato bocconcini di pollo fritto e prosciutto tagliato a dadini.

C. è una giovane Carpigiana ma vanta antenati e carnagione pugliesi. Riccia, castana rossiccia, occhi castano chiari quasi verdi, minuta, affronta i gradini di casa propria come chi ha fatto danza classica, o ha visto troppi film di Charlie Chaplin. Gira su una bici da corsa forse con più anni di lei con un piglio da velocista. Non l’ho mai vista indossare scarpe col tacco e nemmeno vestiti troppo complicati. Non si separa mai da un piccolo borsello di cuoio che miracolosamente contiene tutto ciò di cui ha bisogno. Con un amica sta per partire per un lungo viaggio, sta per attraversare un bel po’ di Asia via terra, in treno, spera di cavarne fuori materiale per un progetto o un reportage che la catapulti nel mondo della fotografia professionale o che le permetta di unire due grandissime passioni della sua vita: la fotografia e il viaggio (Questa parentesi che state leggendo è uno spazio promozionale, in futuro conterrà il collegamento al blog che C. deve ancora creare per darci piccole anticipazioni di ciò che vedranno, toccheranno, sentiranno le nostre eroine - eccolo: http://tuttigiuviaterra.wordpress.com/). Ovviamente tutti tifiamo per lei. Io sicuro che sì.

La terrazza, chiusa dai muri per due lati, lungo i lati rimanenti è circondata da una ringhiera nascosta dietro edere rampicanti e piante in vasi alti. C. dice che in questi giorni alla sera passa il tempo ad affacciarsi in soggiorno per sentire l’odore dei tigli e poi corre, salta i gradini, arriva in terrazza per sentire il gelsomino che, attanagliato al muro, apre i fiori bianchi e gialli e poi corre di nuovo, scende i gradini, passa in soggiorno e rispunta alla finestra per sentire i tigli. Così. Avanti e indietro. Non so dire quante volte.

Io e C. alle spalle abbiamo una piccola sciagura professionale che lei rimembra a volte chiamandomi ironicamente “Capo”, viviamo nella stessa città, frequentiamo quasi gli stessi posti e abbiamo fatto esperienze molto simili (Carpi non è Bologna, è un paesotto con l’arroganza di una piccola città) ma mai identiche. I nostri mondi si sono intersecati ma mai incrociati veramente e ora che entrambi cerchiamo d’imprimere una direzione al nostro futuro, ci siamo ritrovati molto vicini.
La passione di C. per il viaggio è una linea di basso continua che accompagna tutte le nostre conversazioni. A volte esplode in picchi elettrificati: “Sì, come quella volta che ero in Burkina Faso…” “Cose del genere in Vietnam non le puoi nemmeno pensare” che mi lasciano un po’ stravolto e affascinato. A volte assume toni poetici ma con tratti di urgenza e reclamo: “Io divento zingara, quando viaggio divento zingara, basta che vado a guardarmi in uno specchio e vedo che i miei occhi diventano più grandi”. Le voci di Battiato e Luci della Centrale Elettrica girano per casa mentre immaginiamo e disfiamo continuamente progetti creativi. Il buio si tinge di arancione e il campanile della chiesa di fronte, che appena s’intravede, si accende di stelline bianche elettriche. Per un attimo mi credo ad Istanbul, gli stessi odori e la stessa luce, la chiesa tramutata in minareto, attendo che da qualche altoparlante cominci l’ultima preghiera della giornata.
Poi ritorno mentre C. inizia ad innaffiare. Alcune pianticelle, specie quelle da cucina, le sono state regalate e sono in vasi piccoli. L’origano se la cava bene. Il basilico me lo prendo in mano ma è veramente giù, ha solo qualche fogliolina marrone, forse un po’ di ombra oltre all’acqua lo riporteranno tra noi. La menta invece, appena C. le passa sopra il getto, risponde felice e butta intorno il suo aroma. Sembra un cucciolo che ha appena ricevuto una carezza in più. Chiamano C. al telefono, la lascio sola e ne approfitto per tornare in soggiorno. Tra le finestre, al centro sopra la pila di cd, c'è un piccolo quadretto con una foto in bianco e nero: Jean Reno e Natalie Portman in una scena di Léon, il film di Luc Besson.
Chi era?
L’uomo della mia vita
Tuo padre?
Sì, mi chiama sempre quando ho bisogno di coraggio”.

lunedì 14 giugno 2010

Biografie essenziali (55)

Giordano Bruno con le sue teorie, le sue ipotesi e le sue fantasie accendeva gli animi, e non solo...

Biografie essenziali (54)

Quando Dante Alighieri è morto San Pietro non l'ha mica fatto rientrare in Paradiso perché s'era dimenticato di farsi fare il timbro. Ha fatto ricorso e mentre aspetta dorme nel monolocale di Virgilio che si lamenta per la puzza di piedi e gli chiede di usare il borotalco.

Biografie essenziali (53)

Howard Phillips Lovecraft passò la vita a inventare mostri giganteschi. Ma son quelli piccoli, i mostri che ammazzano. E infatti...

domenica 13 giugno 2010

La Poesia

Ieri dovevamo andare a cena a Vicenza da degli splendidi quarantenni. Poi son successe delle cose, dei contrattempi ineludibili, e siamo rimasti a casa. Verso sera ero così scoglionato che ho detto alla mia signora Adesso ti regalo un po' di Poesia. L'ho presa per mano e l'ho portata in macchina al Museo Guatelli, per l'autostrada, per far prima: erano già le sette di sera.

Il Museo Guatelli non si può mica spiegare, bisogna andarci, è Poesia. Ettore Guatelli era un raccoglitore; del museo ci raccontava spesso la Nina, un amico di famiglia, un altro raccoglitore; Raffaello Baldini ha scritto La Fondazione, dove si parla di un raccoglitore, e ieri, al Museo Guatelli, Giuseppe Bellosi l'ha letto integralmente mezzo in dialetto romagnolo e mezzo in italiano, in un teatro artificiale fatto con la roba raccolta da Ettore. Una situazione capace di spappolarti il cervello dalla contentezza. Quelle cose che capitano solo con la Poesia.

La guida del museo ci ha detto che uno per vederlo bene, il museo, dovrebbe visitarlo almeno quaranta volte. Ogni guida ha una storia diversa da raccontare, ogni oggetto ha delle storie che iniziano, finiscono e poi ripartono e magari continuano ancora oggi. Quando siamo usciti dalla stanza delle scatole, per esempio, la guida ci ha detto che era molto contento, perché aveva visto una scatola che prima non aveva mai visto, e son degli anni che lui porta la gente lì dentro. Una continua scoperta, una Poesia.

Poi era ora di partire, abbiamo salutato Giuseppe Bellosi, le guide, Paolo Nori e un po' di amici, e ho chiesto alla mia signora se voleva fare la via Emilia oppure l'autostrada, per far prima. Lei mi ha risposto che potevo decidere io, allora sono andato verso l'autostrada. Solo che, arrivati al casello, la mia signora inizia a dire delle cose che non mi aveva mai detto prima, tipo Ecco, mi porti a vedere tutta questa Poesia, una giornata di Poesia, e poi prendi l'autostrada invece della via Emilia come uno che non conosce la Poesia.

Ci sono rimasto male: ho fatto dietrofront, lì, al casello, e ho imboccato la strada normale per Parma per poi prendere la via Emilia. Ecco, le ho detto, ecco qua, ecco la Poesia. Lei mi ha guardato, si è messa a ridere e mi ha dato del matto. Mi ha messo una mano sulla coscia, mi ha guardato ancora e secondo me era commossa, ma soprattutto rideva e mi dava del matto.

Quando siamo arrivati a casa, poi, l'ho guardata io e le ho detto che non doveva più dire quelle cose, che non conosco la Poesia. Per me, le ho detto, per me la Poesia è anche l'autostrada. Lo sai, le ho detto, lo sai che mi piace anche quella futurista, di Poesia.

venerdì 11 giugno 2010

L’uomo con la macchina da presa

Filmava tutto: gli oggetti, la vita. Telecamera sulla spalla quando usciva all’aria aperta o entrava in case d’altri. Schiena curva, taglia e cuci, luce soffusa nell'archivio audiovisivo del Comune. Dieci, dodici, anche sedici ore al giorno, lì dentro, a montare, smontare e rimontar pellicole. Un corpo minuto, la barba bianca, un occhio chiuso, l'altro guantato dalla plastica del mirino e gli occhiali sulla testa, che non intralcino. Il sorriso, spesso, mai chiassoso: la timidezza dei giusti. Ricordo le lacrime in fonoteca davanti a Ivan Della Mea che canta o cara moglie, asciugate di nascosto, senza mai traballare, tentennare o far tremar le mani: guai rovinare le riprese. Anni e anni di documentazione, di ossessivo filmare tutto: gli oggetti, la vita. Dovremo, dovranno scartabellare per bene l’archivio audiovisivo del Comune, da domani, e troveranno chissà quali documenti, documentari, corto-medio-lungometraggi e la Storia di una città che intreccia le sue strade con le vene della storia di un uomo. Un uomo che non c’è più. Era il nostro piccolo Dziga Vertov. Come Dziga Vertov, per lo stesso male, se n’è andato. Ciao Beppe.

mercoledì 9 giugno 2010

Pensieri in apnea: Dare i numeri

Diciannovesima puntata

Dunque, per chiarezza, per spirito verista e per limpidezza filologica, vi devo avvisare che ho numerato male le corsie e l'ho fatto in modo autonomo ed arbitrario.
I numeri, quelli veri, segnati in stampatello e vernice tra le varie file di galleggianti ci sono.
Quindi, tutte le volte che mi riferivo alla mia corsia come alla 3 voi dovete tramutarla in 4. Tutte le volte che citavo il fitness, l'acquagym e quei riti strani che non prevedono il nuoto non erano le corsie 5 e 6 ma quelle 1 e 2, che oltretutto essendo unite e non divise dai galleggianti, d'ora in poi le chiamerò 1e2. Tutte le volte che ho parlato della corsia per principianti assoluti o per persone in riabilitazione da operazioni chirurgiche non era la 1 ma la 6. Tutte le volte che mi son ritrovato incastrato tra maschere con boccaglio e miasmi di nicotina non ero nella 2 bensì nella 5. Pertanto i professionisti del cloro non risiedono nella corsia 4, come riconoscimento simbolico d'insuperata bravura natatoria dopo il quale non c'è niente di uguale e comincia qualcosa di completamente diverso come il fitness, ma nella 3 come girone in discesa verso l'abisso del moto fisico fine a se stesso.
Uno per due per tre per quattro per cinque per sei fa settecentoventi che è sia la somma in miliardi del piano antispeculazione varato dai paesi UE un mese fa sia quanto chiede Schifani, in migliaia, a il "Fatto Quotidiano" per avergli dato dell'autista.
Poi dicono che i numeri non servono a niente...

Due minuti d'odio (4)

La barba tagliata due volte al giorno, il pizzetto a filo dai peli numerabili, lato per lato, camicia sempre in tiro, le gambe chiuse e scattanti. Schiena dritta! La simpatia per forza, ti offro un caffè, chewingum masticato a bocca aperta, ma anche chiusa, sempre, airfresh, xilitolo, gnac gnac gnac. La barba rasata due volte al giorno, ridere alle proprie battute, camminare veloci per i corridoi con un quaderno in mano, almeno uno. Devi far vedere che fai qualcosa, che vai da qualche parte, dicono. Ottimo, in merito alla mail precedente, opex, capex. Lamentarti sempre del capo, poi chiama il capo, ciao capo, tutto bene capo. Ridere delle proprie battute. Guardami in faccia quando ti parlo. La barba depilata due volte al giorno. Vamolà.

martedì 8 giugno 2010

Cronache di una sorte annunciata: Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola

"La macchina a vapore [...] Cosa potrebbe essere più utile? Cosa potrebbe avere un impatto più rivoluzionario sul mondo? Eppure la macchina a vapore era già stata inventata nel mondo musulmano più di tre secoli prima che facesse la sua apparizione in Occidente, ma con un impatto quasi nullo. In quel caso fu usata per un girarrosto, affinché in occasione dei banchetti dei ricchi si potesse cucinare una pecora intera. [...] Oltre allo spiedo, però, a nessuno venne in mente qualche altra applicazione pratica, per cui la macchina a vapore finì presto nel dimenticatoio.
Un altro esempio: nel X secolo gli antichi cinesi possedevano tutta la tecnologia di cui avevano bisogno per meccanizzare la produzione e produrre beni in larga scala, ma non lo fecero. Invece, usarono i macchinari a ingranaggio per produrre giocattoli. Usarono una turbina ad acqua per alimentare un orologio gigante."
(Tamim Ansary, Un destino parallelo, Fazi editore; pag. 378, traduzione di Thomas Fazi)
Non ci siamo mica dimenticati. Vi ricordiamo che entro il 9 Settembre 2010 dovete spedirci dei contributi per un ebook. Accettate la sfiga.

lunedì 7 giugno 2010

Biografie essenziali (52)

William Shakespeare durante gli "anni perduti" (1585-1592) inventò e perfezionò ripetutamente un'arte assai complicata, fatta di funi e cinghie, calcoli e misure, supposizioni e speranze: il bungee jumping.

Biografie essenziali (51)

Carlo Emilio Gadda sosteneva, dicono, che l'opera d'arte raggiunge il suo massimo quando è

Biografie essenziali (50)

Emilio Lussu ha scritto il più bel romanzo sulla prima guerra mondiale.
Ha sempre sperato nell'insurrezione contro il fascismo e l'ha combattuto eroicamente su tutti i fronti.
Era un cittadino che l'Italia forse non meritava di avere.
Un po' come Saviano adesso.

domenica 6 giugno 2010

Schegge di Liberazione: un blog

Come da oggetto, Schegge di Liberazione è diventato un progetto. D'ora in poi seguitelo qui:


Presto arriverà un resoconto dettagliato del reading al Festival sociale delle culture antifasciste. Grazie a voi è stato un successo. Ci saranno altre occasioni per quelli che non c'erano.

Da queste parti, invece, continueremo a barabbare come sempre. Grazie ancora. Fine dello spam.

venerdì 4 giugno 2010

Doppia nervatura

Mio bisnonno, Archimede, quello che ha quasi spaccato un forcone al cospetto di due nazisti, quello che ha messo fuori dalla finestra al quarto piano il preside della Scuola Elementare di Novi di Modena, lui, vi dicevo, una volta ha fermato un toro per le corna, con le mani. Adesso vi racconto com’è andata.

È andata che il toro si era imbizzarrito non si sa perché, ma dicono che fosse un toro nervoso di natura e che già da un po’ di tempo aveva preso di mira il padrone. Mio bisnonno non aveva un metro di terra sua, lavorava conto terzi. Un giorno il padrone era andato a vedere come funzionavano le cose e il toro l’ha incornato. Il padrone era lì sdraiato in terra che urlava e il toro sopra che cercava di affondare il suo corno preferito: i tori hanno sempre un corno preferito quando attaccano, mi hanno spiegato. Lì di fianco c’era Carlin, il fratello di mia bisnonna, che, nel baccano generale e tra la gente che correva e urlava aiuto, con una vanga stava menando la testa del toro.

“Oh, Carlin, ma c’sa fet, at mas al padroun” (oh, Carlin, cosa fai? Ammazzi il padrone!) gli gridava mio bisnonno, Archimede, perché Carlin colpiva un po’ a caso e ogni due o tre botte alla testa del toro ne arrivava qualcuna sulla testa del padrone.

Mio bisnonno, Archimede, non ci ha pensato due volte: è andato dal toro, gli ha preso le corna con le mani nude e gli ha girato la testa. Lo teneva fermo, così, con le braccia che sembravano attraversate da dei tubi di ferro. Era calmo, le pulsazioni erano basse, la faccia concentrata, il sudore colava giù per la fronte e arrivava in bocca; era una specie di macchina, mio bisnonno. In paese dicevano che Archimede aveva la doppia nervatura, che era un modo per spiegare quello che non capiva nessuno, cioè come mai fosse così forte. Pensavano che avesse una fila di muscoli in più rispetto alla gente normale, che ci fosse un’altra fila di muscoli sotto quella che si vedeva da fuori. C’era della gente, dicevano, che nasceva con la doppia nervatura. Uno era Archimede, mio bisnonno.

Ma torniamo al toro. Il padrone, sanguinante, aiutato da Carlin, è riuscito a scappare mentre mio bisnonno teneva il toro con le mani, per le corna. Poi l’han preso per l’anello del naso, il toro, e l’hanno portato dritto nel recinto.

Solo che quando il toro è entrato nella gabbia ha pensato bene di vendicarsi e si è appoggiato al muro. Tra il muro e il toro c’era il braccio di Archimede. Un toro appoggiato al braccio non lo sposti neanche quando hai la doppia nervatura. Anzi, il braccio comincia a far male, a stortarsi, il sangue non circola più.

Il toro stava lì, a vendicarsi. Mio bisnonno stava lì, ad aspettare.

Non diceva né au né bau, Archimede, aspettava che il toro si spostasse da solo, com’è poi successo qualche minuto dopo. Il braccio gli ha fatto un male cane per una settimana e passa. Gli dicevano Stai calmo, Archimede, stai a letto e guarisci. Ma lui niente. Lui aspettava ancora che il braccio tornasse in forma ma lavorava nei campi con quell’altro. Non lo fermavi mica, non c’era verso.

E il braccio dolorante è poi tornato a posto. Allora mio bisnonno, Archimede, col braccio a posto, ha preso con sé Carlin e sono andati a cercare dei bastoni di metallo. Poi sono andati dal toro e l’hanno portato in campagna, sotto un albero, così che nessuno potesse vederli, e han cominciato a picchiarlo. Non l’hanno mica ammazzato, un toro costa dei soldi e poi chissà cosa dice il padrone se scopre che gli hanno ammazzato un toro. No, l’hanno picchiato tantissimo, pim pum pam, e ancora e ancora, finché il toro era coperto di sangue e di sbraghi sulla pelle. Poi l’hanno brancato per l’anello del naso e l’hanno riportato nel recinto e l’han rinchiuso lì finché non guariva.

Mi han detto che dal giorno dopo, fino alla fine della sua esistenza bovina su questo pianeta, il toro, quando incontrava mio bisnonno, quando incontrava Archimede, s’inginocchiava. Proprio così: s’inginocchiava. Archimede passava e il toro giù, in ginocchio. Era quasi un’attrazione, in paese non si parlava d’altro.

Queste cose me le ha raccontate suo figlio, mio nonno, Corrado, quello che aveva fatto il disertore e si era nascosto in una concimaia per nove mesi, quello che aveva preso una sberla per avere sporcato la divisa del Balilla. Non l’ho mai conosciuto mio bisnonno, Archimede, quello con la doppia nervatura. Doveva essere anche molto bello, con tutti quei muscoli. Ma me lo posso solo immaginare. Non ho ereditato niente.


***


Ce n’era poi un altro, a Novi, con la doppia nervatura. Girava col kilt perché suo padre era scozzese e camminava sempre a piedi nudi, anche sulla neve. Lo chiamavano Stanloun, non so perché. Andava spesso a Carpi a piedi a far due chiacchiere in una vetreria. Scalzo. Era fatto così. Prima o poi vi racconto anche la sua storia.

giovedì 3 giugno 2010

Pensieri in apnea: Naufraghi

Diciottesima puntata

Quando cambia la marea se stai attento te ne accorgi. La linea delle onde sale sempre un po’ di più, una corrente più in basso delle altre le spinge sempre più avanti. Deve essere la messaggera, la ruffiana che corre per avvisare i pesci e tutto ciò che vive nel mare che il tramonto sta per dare spazio alla notte e che il buio cullerà le onde sotto lo sguardo della luna.

In piscina sensazioni del genere non le avverti, i brividi che percepisci e accogli sono solitamente autoindotti, frammenti inquietanti o eccitanti del flusso di coscienza che si libera nel fluido amniotico clorato. Quella sera invece le ombre sui lastroni di pietra prima della spiaggia erano già profonde e il rosso del sole si mescolava al blu dell’acqua in un violaceo poco raccomandabile. Dovevamo tornare alla svelta.

Decidiamo di non lasciare nulla lì sulla spiaggia e crediamo che il materassino non ci abbandonerà. Per una legge fisica che riconosco e ammiro ma non so nominare, l’aria del materassino non fuoriesce se dall’altra parte della tela trova l’acqua. O almeno esce molto, molto lentamente. Mentre muoviamo i primi incerti passi sui lastroni il vento si alza: qualche folata di accoglienza per assicurarci che anche Eolo ci fa fretta. Sotto di noi i lastroni sdruccioli e spezza caviglie cedono il posto alla sabbia bianca che alla fine scompare: blu senza fondo.

La manovra non concordata ma intuitivamente attuata da entrambi prevede un avanzamento in rettilineo fino a superare la perpendicolare degli scogli adunchi, repentina torsione a sinistra, superamento in tutta sicurezza della zona critica, rilassante ritorno verso la costa di partenza dove i nostri amici forse ci staranno già cercando. La prima azione raggiunge l’obbiettivo seppur con sforzi maggiori a quelli previsti: non abbiamo considerato che la marea ci sta respingendo verso la terra. La seconda fase rivela tutta la nostra fallace schematicità da terrestri. Con la marea contro solo i granchi ancorati al fondale riescono a muoversi di lato. Le onde ti colpiscono di fianco e ti spingono indietro di due metri come ridere. E se sei stanco ti senti ancora più leggero, inutile, un pezzo di carne e cervello appoggiato sulla superficie più vasta del pianeta. Andiamo a sinistra di un metro e le onde ci buttano indietro di due: non ci vuole un ragioniere per capire che tempo tre minuti andremo a schienarci contro gli scogli artiglios come piccoli graffiti o quelle conchigliett che usano per datare le montagne. Ci ricomponiamo e cerchiamo di ripristinare la distanza dal pericolo. Ripetiamo la manovra di spostamento. Le onde ci colpiscono nuovamente d’infilata. Torniamo al punto della fase uno. Così due o tre volte.

Le energie scemano, il caldo ci ha infiacchito, i muscoli cominciano a far male. Fil, ancora non so se per sfiducia o per spossatezza s’inerpica momentaneamente sul materassino. Non è poi questo gran peso Fil, anche se sotto un fisico e una statura minuta a volte sfoggia un carapace da mangiatore e bevitore di tutto rispetto. Troppo stanco per spingere ancora confida nell’intervento di qualche barca in entrata o uscita dalla costa turistica dalla quale ci siamo allontanati. E la sorte sembra dargli ragione, un motoscafo ci passa vicino, anche se in mare le distanze si modificano e diventano chilometri. Urliamo e ci sbracciamo, ma siam pur sempre bagnanti intorno a un materassino, non siamo certo i naufraghi sulla zattera di Delacroix. Il rumore del motore copre i nostri rantoli, se poi hai un coso che si può riassumere in una punta triangolare di lamine e un motore da quattrocento chili, posso anche immaginare che quando lo porti al massimo non stai troppo a badare alla visuale periferica. La disperazione coglie Fil che comincia a maledire il materassino e rannicchiarcisi sopra in posizione fetale.

Le ombre continuano la loro corsa e il sole sta già per incontrare la linea dell’orizzonte. La solitudine e il vuoto che ci circonda cominciano a soffiarci attorno. Ma è davvero tutto vuoto? Non è il momento migliore per pensare alle piacevoli e tenebrose letture sul ciclo di Chtulhu e dei Grandi Antichi, divinità aliene che dormono nelle viscere della terra e che potrebbero risvegliarsi da un giorno all’altro inghiottendo tutto ciò che noi chiamiamo vita. Dopo la paura irrazionale il fatalismo compare giusto in questi momenti. Se deve succedere che succeda. Noi in quel momento, in quel posto, meglio di così non riusciamo a fare. Se compare pure il mostro quando saliremo dall’amministratore celeste avremo i nostri bei reclami sulla vacanza-premio firmati e bollati in triplice copia.

Oltre al comprensibile scoramento psichico arriva il cedimento fisico: crampo al polpaccio destro. Qui posso solo dire che i luoghi comuni funzionano a rovescio. Non so chi abbia detto che l’umanità si pone solo le domande che riesce a risolvere, in realtà dopo quell’esperienza credo che l’umanità trovi prima soluzioni che poi casualmente trovano applicazione. Anche perché ho capito che come tutti son pieno di domande ma che raramente sto ad ascoltare la risposta. L’enigma e l’ignoto ci piacciono di più. Come quest’assurda traversata. Anni fa in bicicletta, sempre per noia e per complicarmi un po’ le regole del gioco, passavo il tempo ad usare un solo pedale a turno, così, come per vedere se ci riuscivo, per vedere l’effetto che fa. Ci fu infine una volta che il pedale si ruppe davvero e così un abilità imparata col gioco divenne una necessità per tornare a casa. La stessa abilità la usai quella volta in mare, stendendo la gamba destra e rilassandola mentre quella sinistra mulinava per entrambe.

Alla fine gli amici comparvero, quando ormai stavamo pensando di mollare tutto in fondo al mare e improvvisare una planata d’emergenza contro gli scogli aguzzi. Tornati a riva, la terra sulla quale camminavamo ci è sembrata instabile e storta per almeno un giorno intero.

Società Sborniettista

Squadra Monelli - Fossoli

REGOLAMENTO:
  1. Vietato bere acqua.
  2. I soci non possono partecipare al funerale di un socio che sia morto annegato.
  3. Verrà premiato chi durante l'annata si distingua con solenni sbornie e relative conseguenze.
  4. Prima di far parte a questa Società il socio deve distinguersi con una solenne sbornia.
(da documento storico, tessera n. 432 di tale Ballabeni Walter, sottoscritta il 14-1-1951. Recuperata da Nicola Bertoncelli per l'archivio storico di Mauro D'Orazi.)

martedì 1 giugno 2010

(errata corrige)

Ilke Bab non ha una passione per i brontosauri, ma per i marshmallows.

Campagna acquisti

È con piacere incommensurabile che diamo il benvenuto tra le fila dei barabbisti alla prode eroina emiliano-marchigiana Ilke Bab. Di seguito la sua biografia essenziale:

Ilke Bab nasce ventotto anni fa ed è tuttora vivente. Misura il tempo su un Pop Swatch del 1988, ha una passione per i brontosauri e sogna di scrivere libretti d'opera.

Ora diciamo tutti insieme: "ciao Ilke Bab".